Nessun allarmismo è giustificato nel commentare gli effetti potenziali sul prezzo del greggio dovuti al blocco imposto dal generale Khalifa Haftar ai pozzi petroliferi libici della National Oil Company nel territorio sotto il suo controllo. Il generale e uomo forte della Cirenaica, infatti, non sconvolgerà i mercati energetici mondiali con la sua decisione motivata dalla necessità di chiudere i rubinetti al governo di Fayez al Serraj, depositario dei profitti di tutto l’export petrolifero libico.

Come ricordato su questa testata, “per adesso, il taglio stimato delle esportazioni del greggio libico è nell’ordine di 700mila barili al giorno. Un’enormità per l’economia del Paese nordafricano. Secondo la Noc, si rischia il totale collasso del sistema produttivo petrolifero nel giro di cinque giorni”. Tuttavia, i mercati mondiali non risentiranno gravemente della mancanza del greggio estratto dai pozzi controllati dal rais della Cirenaica, per una serie di motivi connessi tra loro.

In primo luogo, il calo dell’export libico è considerato oramai come fisiologicamente accettabile da mercati e investitori. Investitori, governi e operatori si sono abituati a considerare potenzialmente minacciato il mercato libico, riducendo gradualmente la dipendenza nei suoi confronti. Difficilmente Tripoli potrebbe diventare un esportatore pari a quello che era prima del 2011.

In secondo luogo, di conseguenza, il calo improvviso avviene in un contesto in cui la componente maggiore del tracollo del greggio libico è già stata sperimentata. 700mila barili evaporati nel mercato mondiale non sono un’inezia, ma nemmeno una catastrofe. Basti pensare che, a livello mondiale, i consumi si aggirano sui 100 milioni di barili al giorno e che, in materia di export, la Libia è surclassata da altri produttori che hanno compensato la sua uscita dei mercati. Anche dopo il ritorno dell’export libico a 1,4 milioni di barili al giorno Tripoli veniva preceduta da diversi Paesi, per la precisione Arabia Saudita, Russia, Iraq, Emirati Arabi Uniti, Kuwait, Nigeria, Venezuela e Angola.

Inoltre, il recente caso dell’attacco dei droni yemeniti alle raffinerie saudite ha rappresentato uno “stress test” brillantemente superato dai mercati energetici. L’ampio quantitativo di riserve detenute dai principali importatori, come Cina e India, e la rete protettiva di meccanismi finanziari, titoli di copertura e mercati spot ha contenuto nel settembre scorso la fiammata dei prezzi di Wti e Brent, impedendo lo scatto fino ai temuti 100 dollari al barile.

Infine, Haftar può sì operare un’azione di ricatto politico-economico per mettere sotto pressione il rivale di Tripoli ma al tempo stesso non ha possibilità di incidere su altre rotte energetiche. Il caos libico non impedirebbe il fluire del petrolio nel Mediterraneo, mentre una crisi sistemica in area mediorientale metterebbe a repentaglio sia la produzione dei Paesi coinvolti che il traffico negli strategici stretti marittimi su cui essi insistono.

Non c’è dunque da aspettarsi nessuna fiammata della benzina o del prezzo del petrolio per una mossa che, è bene precisarlo, non avviene nemmeno a mercati aperti. Il tema è squisitamente politico: Haftar taglieggia Serraj contendendogli la “cassaforte” energetica proprio mentre a Berlino si muovono i primi passi per la conferenza di pace che mira a dare una via d’uscita al Paese. Certamente non il miglior auspicio per sperare in una sua piena riuscita.

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