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Dopo un lungo, soporifero letargo i sindacati americani tornano a farsi sentire. A puntare i piedi. Insomma, dopo anni di opportunistici silenzi, i rappresentanti dei lavoratori statunitensi sono tornati a fare il loro lavoro pretendendo finalmente un robusto riallineamento di stipendi e diritti. Meglio tardi che mai.

Spieghiamo. A fronte delle performance stellari realizzate dei grandi gruppi industriali e finanziari statunitensi, il potere d’acquisto dei salariati è stato divorato dall’inflazione e i già limitati diritti dei lavoratori si sono sempre più ristretti quando non evaporati. Da qui l’ondata di proteste spontanee che sta scuotendo da mesi l’intero Paese. I primi a scendere in campo sono stati gli operatori di Ups (che hanno ottenuto un aumento salariale del 18% su cinque anni) seguiti dai piloti dell’aviazione civile (40% in più su quattro anni) e dai dipendenti di Deerre, il gigante delle macchine agricole, che hanno ottenuto un innalzamento del 20%. Un terremoto sociale che da quest’estate si sta estendendo in ogni comparto e ha “contagiato” persino i lavoratori degli studi di Hollywood, arcistufi dei contratti capestro imposti dalle majors. 

Un intreccio di sofferenza e insofferenza che ha risvegliato anche i molto accomodanti, poco combattivi e sempre meno frequentati sindacati di categoria. Oggi soltanto il 10% dei salariati americani aderiscono alle “unions”, considerate dai più il terminale elettorale del partito democratico ovvero, per il ceto medio impoverito e la classe operaia disperata, “il partito dei ricchi”. Da qui il sostegno convinto nelle aree industriali o deindustrializzate degli Usa per Donald Trump.

Ma la vera sorpresa arriva ora dall’industria automobilistica. Da venerdì 15 settembre il sindacato United auto workers (Uaw) è sceso in campo contemporaneamente contro i “Big three”, gli storici colossi industriali del settore: Ford, General Motors e Stellantis (ex Chrysler), il 40% circa del mercato USA. Una strategia a scacchiera: in una prima fase 12.700 lavoratori hanno dichiarato lo “stand up strike” bloccando gli stabilimenti GM di Wentzville (Missouri), Ford Bronco a Wayne (Michigan), Stellantis a Toledo (Ohio). Poi l’escalation. Poichè le trattative non hanno prodotto risultati tangibili da venerdì 22 l’Uaw ha mobilitato tutti i 150mila dipendenti del settore fermando 38 impianti in 20 stati.

Una lotta ad oltranza che riporta alle tensioni degli anni Trenta del Novecento, quando il sindacato costrinse, dopo 44 giorni di durissimi scontri davanti lo stabilimento di Flint nel Michigan, l’allora potentissima Ford ad accettare un accordo finalmente equo. Storie di ieri che s’intrecciano con le storie di oggi. Nel tempo, sfruttando l’arrendevolezza del sindacato le condizioni di lavoro sono inesorabilmente peggiorate mentre i colossi dell’automobile hanno incassato cifre record: 4,8 miliardi di dollari nel 2020, 29,4 miliardi nel 2012, 37,2 miliardi nel 2022

Il regista della protesta è Swan Fein, il nuovo capo dell’Uaw. 54 anni, elettricista alla Chrysler. Un uomo di fabbrica dell’Ohio. Duro e intelligente. A differenza dei suoi morbidi predecessori ha rotto ogni rapporto con i democratici rifiutando d’aderire ai comitati per la rielezione di Joe Biden e, non casualmente, ha pubblicamente snobbato al primo incontro ufficiale la mano tesa di Mary Barra, la super manager di GM, grande sostenitrice dell’inquilino della Casa Bianca. La signora ci è rimasta male. “Sono molto frustrata e delusa”, ha detto ai microfoni della Cnb, “avevamo proposto un’intesa storica”.

Fein invece tira diritto e rilancia le sue richieste: contro il 10% proposto dalla controparte vuole aumenti salariali a “due cifre” (circa il 40%) in quattro anni così da poter adeguare gli stipendi all’inflazione. E poi la rivalutazione delle pensioni e 32 ore settimanali di lavoro. La parola d’ordine è chiara per tutti: “A profitti record debbono corrispondere contratti record”. La novità politica arriva da Washinton. Per una volta l’affaticato presidente Biden sembra aver ascoltato i suoi consiglieri più attenti e, sorprendo i suoi agiati amici, si è sbilanciato con una dichiarazione per lui inusuale. “Nessuno desidera scioperi ma io rispetto il diritto dei lavoratori d’utilizzare le loro opzioni di negoziazione e comprendo le loro frustrazioni. A fronte dei loro eccezionali ricavi le aziende automobilistiche devono garantire degli adeguati benefici ai loro dipendenti. Servono proposte e offerte significative». Un messaggio importante che certamente peserà nelle trattative in corso tra l’Uaw e i “Big three” ma anche, dato importante, un chiaro segnale d’apertura e d’interesse verso quei ceti declassati e impoveriti che vedono in Trump e solo in Trump l’unica alternativa possibile al declino americano. La corsa delle presidenziali continua.

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