L’Unione Europea e le guerre del debito sono una certezza. Non è bastata una pandemia rovinosa che ha portato il Vecchio Continente nell’occhio del ciclone e sembra non basterà nemmeno una guerra nel cuore dell’Europa orientale per far cambiare idea ai custodi dell’austerità. Trinceratisi negli ultimi giorni in difesa della linea del Piave del ritorno al business as usual nei mesi a venire, a favore del rilancio delle politiche seguite dall’Unione Europea prima della pandemia. Ergo: meno spesa e tagli al debito.

Sembra incredibile ma è così: la riunione dell’Eurogruppo di lunedì 14 marzo ha sì interiorizzato nelle sue conclusioni l’incertezza sugli impatti macroeconomici della guerra in Ucraina, che può causare uno shock principalmente sui commerci di materie prime, ma anche esortato, nel suo documento riassuntivo, a una stretta fiscale. Di fatto l’Eurogruppo, che ricordiamo essere la riunione informale dei ministri dell’Economia e delle Finanze dei diciannove Paesi dell’area Euro, invita i Paesi più indebitati, ad apportare “aggiustamenti per ridurre il debito “se le condizioni lo permetteranno”. Nulla di ufficiale, per ora: ma in passato la storia politica dell’Unione Europea ha permesso di capire quanto importanti siano questi vertici informali.

“Questo aggiustamento”, per l’Eurogruppo, dovrebbe essere inserito “in una strategia credibile a medio termine” capace di continuare a far coesistere la tutela della sostenibilità del debito con “gli investimenti e le riforme necessarie per la doppia transizione”. In sostanza si chiede ai Paesi europei di continuare a investire, coerentemente con i piani di rilancio di Next Generation Eu, ma di farlo nel quadro di un contesto simile allo status quo pre-pandemia, con il controllo sul rigore contabile come Stella Polare. E nel frattempo, nota Marco Palombi su Il Fatto Quotidiano, “lo schieramento sui falchi manda un altro segnale”, indicando che “si deve andare verso la normalizzazione delle politiche economiche e monetarie”.

L’ascesa al governo della Germania della coalizione semaforo di Verdi, socialdemocratici (Spd) e liberali (Fdp) aveva visto nei primi giorni del 2022 il falco rigorista Christian Lindner, ministro delle Finanze di Olaf Scholz appartenente al Fdp, accettare l’idea di abbandonare il ritorno al rigore. Tanto che si era parlato di un congelamento esteso anche nel 2023 delle regole del  Patto di Stabilità. Il silenzio su mosse del genere da parte di Lindner, che in patria ha approvato entusiasticamente i piani di riarmo della Cancelleria federale, è oggi inequivocabile: Berlino sicuramente prende tempo, mentre i falchi più tradizionali possono muoversi liberamente. La manovra, del resto, era in preparazione da tempo.

Valdis Dombrovskis, super-commissario europeo che coordina da vicepresidente di Ursula von der Leyen i lavori economici di Bruxelles, ha spinto nelle scorse settimane per far inserire nelle linee guida sulle regole di bilancio per il 2023 misure fortemente ispirate alla vecchia scuola. Le raccomandazioni invitavano tutti gli Stati dell’Unione Europea con alto debito, come l’Italia, a ridurre il debito già a partire a partire dall’1 gennaio prossimo, per il bene dell’Eurozona. E questo è importante considerato il fatto che l’idea della Commissione pare quella di aspettare, per la sospensione del Patto di Stabilità, perlomeno maggio, quando il Documento di Economia e Finanza (Def) italiano con le proiezioni di spesa per gli anni a venire nelle politiche anti-crisi sarà già preparato. E allora inizieremo già a scontare sul versante macroeconomico gli effetti dell’attuale crisi economica.

Nelle scorse settimane, poi, Mark Rutte, premier olandese, ha bocciato l’idea di Mario Draghi e Emmanuel Macron di promuovere politiche a tutto campo per finanziare le spese in transizione energetica e Difesa tramite l’emissione di Eurobond, di fatto un Recovery Fund aggiornato al periodo di incertezza bellica. Per Rutte “il Recovery è stato una tantum, non si ripete”. Al falco de L’Aja si è unito il primo ministro svedese Magdalena Andersson, per la quale “alcuni Paesi trovano sempre nuovi argomenti per non pagare le proprie spese”.

La botta più dura è arrivata poi dalla Banca centrale europea, che venerdì scorso ha annunciato l’inizio della fine delle politiche espansive che stanno da due anni calmierando i prezzi dei debiti e l’esposizione delle economie europee. Per Christine Lagarde è addirittura possibile un aggiustamento al rialzo in senso anti-inflazione dei tassi di interesse. Manovra che sta già compiendo la Federal Reserve americana e risulta inevitabile, ma che si potrebbe compiere solo a patto di aggiungervi scelte politiche volte a consolidare l’euro rafforzandolo nei mercati valutari internazionali per non esporre l’economia veterocontinentale a rischi recessivi.

Insomma, c’è una ripresa della forza dei falchi che non sta trovando adeguata contrapposizione da parte dei Paesi del Sud e del fronte anti-austerità. Il rischio è che i dibattiti per le riforme economiche e politiche dell’Ue si trascinino in un pantano, portando al declino del Vecchio Continente mentre fuori imperversano crisi di taglia globale. La storia è tornata in Europa e i suoi venti vanno assecondati per meglio governare la rotta della nave. Venti, questi, che certamente non spirano nella direzione dell’austerità e della focalizzazione univoca sul debito pubblico.