Analisti, politici e esponenti del mondo economico-finanziario avevano preventivato che il 2019 sarebbe stato un anno importante per le borse e l’economia reale a livello globale, dopo che il 2018 aveva sancito, nella seconda metà del suo corso, la fine della fase di crescita dei listini ed euforia generalizzata dei mercati, lasciando il campo a una fase di estrema volatilità, a una profonda recessione negli indici e all’incertezza di governi e banche centrali.
A inizio 2019, le grandi incertezze gravanti sull’economia mondiale (Brexit, guerra commerciale, crisi valutarie) non si sono diradate in maniera completa, ma la scelta dei principali governi e delle banche centrali (Bce, Federal Reserve, Bank of Japan, Bank of China) di frenare la restrizione monetaria e dare nuovo corso a una fase di quantitative easing generalizzato che, pur tappando le falle nei mercati in caduta libera, ha contribuito solo scarsamente a dare fiato all’economia reale.
I poli principali dell’economia globale danno segno di quanto corto sia il loro fiato. Non stiamo parlando dell’inizio di una nuova crisi, chiaramente, ma dello stesso filone di lungo corso di fine 2018: un progressivo inasprimento della volatilità borsistica e delle incertezze dell’economia reale e del commercio indeboliscono il tessuto connettivo di un’economia ramificata su scala globale. Non è detto che siano, presi singolarmente la crisi commerciale Cina-Usa, il debito corporate di Wall Street o l’instabilità di Deutsche Bank a causare una futura recessione globale. Tuttavia, la presenza di epicentri di crisi fornisce materiale fissile per innescare un incendio di vasta portata nel caso di deflagrazione di un singolo elemento di criticità. Esattamente come nel 2007-2008: la finanza, purtroppo, non impara le lezioni della storia.
Quali sono gli indicatori che certificano questa tensione? Bisogna leggere nei recessi delle statistiche economiche più significative per capire i trend di lungo periodo. Di cui i benchmark più utilizzati (crescita economica, rapporto debito/Pil e così via) rappresentano epifenomeni temporanei. Prendiamo ad esempio il debito americano. “I rendimenti dei governativi statunitensi a 3 mesi sono saliti al 2,45%. Nello stesso momento quelli dei titoli a 10 anni sono scesi al 2,43%”, sottolinea Il Sole 24 Ore. “Ergo, la curva del debito si è invertita e, in parole più semplici, i tassi a breve sono diventati più alti di quelli a lunga scadenza. Non accadeva dal 2007 e nelle precedenti volte in cui si è verificata questa condizione, nei mesi a venire (in media 17) è seguita una recessione economica”.
Donald Trump punta a una crescita annua del 3% ma per realizzarla dovrà mediare col Congresso per portare a casa un bilancio fortemente orientato sugli investimenti in opere pubbliche a grandi potenzialità di valore aggiunto. E la stessa Fed, ponendo fine al braccio di ferro sui rincari del tasso di sconto, ha di fatto certificato i timori per una prossima recessione. Jerome Powell, direttore della Fed, ha comunicato nel corso della scorsa settimana che, come riporta Il Sussidiario, “non solo non alzerà i tassi per tutto il 2019, ma anche che per il 2020, a oggi, contempla solo un rialzo, contro i due già programmati e prezzati dai mercati. Inoltre, a fine settembre finirà anche il programma di taper del bilancio, ovvero la normalizzazione delle detenzioni in seno allo stato patrimoniale. In parole povere, la vendite di Mbs e Treasuries acquistati con il badile negli anni del Qe e che adesso sono giunti a maturazione, quindi da scaricare per far tornare il bilancio a livelli di controvalore più normali”.
In questo contesto, “le redemptions di Treasuries, ovvero le vendite di titoli di Stato a scadenza, proseguiranno da maggio a fine settembre, ma con un cap sul controvalore che farà scendere il drenaggio di liquidità dai 32 miliardi attuali a 15″, senza tuttavia che ciò portasse i mercati a digerire come positiva una notizia che andava in direzione di una loro ripresa: lo sgonfiamento sistematico di fine 2018 impedisce un subitaneo ritorno all’euforia.
Euforia che manca, invece, nella produzione industriale tedesca. L’indice ufficiale della produzione industriale per marzo ha fatto registrare una discesa sotto la soglia dei 45 punti (con quota 50 rappresentante la soglia per definire un ciclo positivo). “In Germania, l’ attività ha indicato il più lento tasso di crescita da giugno 2013 con un calo dei nuovi ordini per il terzo mese consecutivo”, si legge nella nota diffusa da Markit, “e anche se la crescita dei servizi è rimasta forte, la produzione manifatturiera ha segnato la peggiore contrazione da agosto 2012”. Sotto la soglia psicologica di quota 50 è scesa anche la Cina, nel mese di febbraio: per Pechino il 2019 sarà l’anno decisivo per capire se sarà possibile sostituire il tradizionale modello che vede alti tassi di investimento e bassi tassi di consumo nel “mix energetico” del Pil nazionale.
Sono percezioni, indicatori di tendenze. Ma, in molti casi, segnalano campanelli d’allarme. In economia fanno più notizia la news a sensazione o l’allarmismo sconsiderato rispetto alla sana e ponderata analisi. Ma sono dati meno noti, ma cruciali, a segnalare la fase di stanchezza che vive l’economia globale. A cui sarebbe ingenuo pensare di rispondere con una nuova alluvione di liquidità finanziaria incapace di trasmettersi all’economia reale.