Allo scoppio della pandemia, la sindrome da scaffale vuoto aveva dimostrato due cose: gli effetti devastanti di una psicosi collettiva (i supermercati non hanno mai chiuso nemmeno un giorno) e quanto certe pastoie del villaggio globale avessero messo sotto scacco produttori e consumatori, soprattutto nel settore alimentare, una complessa rete di interazioni che coinvolge agricoltori, fattori di produzione agricoli, impianti di trasformazione, spedizioni, rivenditori. A causa del dilagare del Covid19, è finita sul banco degli imputati la grande distribuzione: per decenni, i governi hanno fatto ben poco per proteggere le piccole aziende agricole e i produttori alimentari che sono stati spinti fuori da questi giganti del business, generando aberrazioni come il caso di Singapore che importa dall’estero il 90% del suo cibo o dell’avanzatissima Australia che, invece, esporta circa due terzi dei suoi prodotti agricoli in un’area turbolenta come l’Asia-Pacifico.
Sinistre avvisaglie
Anche la crisi dei dispositivi di protezione individuale aveva creato vere ondate di panico: all’inizio dell’emergenza diversi Paesi del mondo hanno letteralmente combattuto il Covid a mani nude nei reparti di terapia intensiva. A questo si aggiunge un singolare episodio, che ha stressato questi timori, nella fase ancora acuta della pandemia: il cargo taiwanese Ever Given, in navigazione verso il porto di Rotterdam, in Olanda, partito da Yantian, in Cina si incagliò a nord del porto di Suez lo scorso marzo, generando un incredibile effetto domino a suon di prodotti deperiti, costi e mancate consegne. L’agenzia Bloomberg ha stimato che l’ostruzione del Canale di Suez, attraverso il quale transita il 12% delle merci mondiali e il 30% del traffico dei container spediti via mare, abbia creato una perdita economica di almeno 9,6 miliardi di dollari al giorno, per la mancata consegna delle merci a bordo delle navi bloccate nel canale e per quelle in attesa agli imbocchi. Solo le merci stivate nelle navi bloccate nel canale valevano circa 8,1 miliardi di dollari, secondo la LLoyd’s List.
La vicenda ucraina riagita a breve distanza lo spauracchio dei blocchi e dei confini che si chiudono, e con essi le catene di approvvigionamento. Ad essere messa in discussione non è la globalizzazione culturale e tecnologica, che è quella che ci sta permettendo di vivere live il conflitto e che consente agli esseri umani di comunicare in tempo reale, ma il sistema che il villaggio globale ha sviluppato attorno alla produzione di cibo, oggetti, e all’impronta energetica delle nostre società. L’interrogativo di base è perché il cibo che ogni giorno ci nutre debba fare anche 10mila km per giungere nel nostro piatto; perché, se l’industria dei microchip entra in crisi dall’altra parte del mondo non possiamo sopperire alla loro mancanza; e ancora perché l’energia per produrre tutto questo debba arrivare da migliaia di chilometri, costringendo a mercanteggiare con aree del pianeta instabili e compromettersi con regimi illiberali.
Verso il sovranismo alimentare?
Sebbene questo conflitto sia ben diverso dalla Seconda Guerra Mondiale, quando quest’area venne afflitta da vere e proprie ondate di carestia, ciò che sta già accadendo in Ucraina si sta già irradiando verso l’esterno e minaccia la disponibilità di cibo nelle nazioni meno prospere. Queste ultime sono diventate dipendenti dalle esportazioni di cereali e altri prodotti alimentari dall’Ucraina e dalla Russia, che oggi rappresentano il 29% delle esportazioni globali di grano. Contribuiscono anche al 19% del mais globale e all’80% delle esportazioni globali di olio di girasole. Il Mar Nero è il cuore di questi scambi transnazionali e, rischiando di diventare una polveriera e con le spedizioni nel Mar d’Azov bloccate, i futures sul grano sono già balzati verso l’alto. Se ciò si ripercuote attraverso ritardi e perdite milionarie nei Paesi più ricchi, uno stuolo di nazioni a basso reddito rischiano vere e proprie carestie e un generale peggioramento della salute pubblica a causa dei prezzi delle granaglie. Russia e Bielorussia, inoltre, sono anche i principali esportatori di fertilizzanti, con la Russia in testa al mondo; i prezzi, che erano già alti prima della guerra, sono aumentati. La scarsità di fertilizzanti mette a repentaglio la produzione agricola globale che ne è dipendente se non narcotizzata.
Vi sono nazioni al mondo che, avendo saputo diversificare o comunque essendo altamente tecnologici, hanno retto bene alla pandemia: l’Italia ad esempio, mantiene un buon primato nella filiera corta e l’ha riscoperta proprio negli ultimi due anni; La Cina moderna, un Paese completamente diverso dal passato, con nuove tecnologie e investimenti record ha lavorato per anni per migliorare la sua sicurezza alimentare, spendendo decine di miliardi di dollari nell’ultimo decennio acquistando importanti aziende di sementi. Questi sforzi sembrano aver attenuato il colpo all’industria alimentare nel pieno della pandemia. Per tutte queste ragioni, negli ultimi 24 mesi il tema della sovranità alimentare è tornato prepotentemente in auge: paesi come Nepal, Mali, Venezuela e molti altri hanno già riconosciuto la sovranità alimentare come un diritto costituzionale del loro popolo poiché pare essere la migliore difesa contro qualsiasi shock economico.
Ridurre le nostre impronte energetiche
La crisi energetica è la seconda grande implicazione, dopo il disastro umanitario, del conflitto in Ucraina. La geopolitica del petrolio nell’ultimo secolo ci ha dimostrato più volte quanto questa risorsa fosse suscettibile della politica internazionale. Soprattutto è divenuta più intricata la geopolitica del gas naturale, sulla quale si è spinto a livelli intollerabili, nella convinzione di poter intendere l’oro blu come fonte di transizione. Non bisogna dimenticare che la geopolitica del gas aveva già dimostrato quanto alcuni eventi non riguardanti il Medio Oriente sarebbero stati in grado di abbattere e ricostruire equilibri internazionali. Negli anni 2000 con l’ascesa al potere di Vladimir Putin in Russia si compì in breve la resa dei conti con gli oligarchi del petrolio e del gas, passando alla realizzazione del controllo statale su altre fonti energetiche mediante la famigerata Gazprom. Il presidente promosse un nuovo nazionalismo, ritenendo che il governo dovesse dare vita a grandi multinazionali in grado di competere con l’Occidente. Nel 2001 modificò il gruppo dirigente di Gazprom, nel 2003 fece arrestare il presidente il principale azionista della Yukos e nel 2004 operò in un’altra direzione, aumentando l’imposta di esportazione del greggio. La Russia, pur indietreggiata al secondo posto come possessore di gas remoto, negli ultimi dieci anni ne è rimasta il maggiore esportatore, rifornendo Paesi europei sia orientali che occidentali raggiunti con i gasdotti di epoca sovietica. Il trasporto è rimasto la vera criticità del gas naturale poiché sottoposto alle conflittualità geopolitiche: da qui le ripetute accuse da parte di America ed Europa verso la Russia, di usare le sue risorse per riconquistare una posizione di superpotenza. Critiche tragicamente confermate negli ultimi giorni.
È chiaro che i fatti di questi giorni fanno cozzare tragicamente decenni di scelte energetiche contro i progetti che l’Europa e il mondo intero aveva circa il clima e l’uso delle rinnovabili. La Germania, Paese in transizione energetica per eccellenza, nonché nodo caldissimo per via delle vicende del Nord Stream 2, è il luogo in cui queste difficoltà e queste contraddizioni si stanno palesando per prime. Circa il 55% delle importazioni di gas della Germania proviene dalla Russia, oltre al il 50% di carbon fossile e circa il 30% di petrolio. Mentre la Germania ha una riserva strategica di petrolio, che per legge deve durare 90 giorni, non esiste tale requisito per gas e carbone. Qui, solo le società stesse decidono sulle loro riserve. Ora è diventato chiaro che si è trattato di un errore strategico e il ministero dell’Economia vuole far passare le modifiche legali il più rapidamente possibile. L’Unione europea sta valutando misure per rafforzare la sua sicurezza energetica poiché sanzioni sempre più dure contro la Russia e l’escalation della violenza in Ucraina hanno sollevato preoccupazioni sull’approvvigionamento per il prossimo inverno.
L’Europa importa circa il 40% del suo gas, il 35% del suo petrolio greggio e oltre il 40% del suo carbone dalla Russia. Poiché l’incertezza cresce su queste importazioni e le riserve di gas dell’UE stanno scendendo al di sotto del 30%, il blocco è alla ricerca di alternative all’energia russa e pianifica attentamente il prossimo inverno. “La nostra situazione attuale è tesa”, ha affermato il commissario per l’Energia dell’Ue, Kadri Simson: tuttavia le eminenze grigie europee sono pronte a rassicurare circa la coda di questo inverno e anche sull’estate che arriva. Tuttavia, il tema della sovranità energetica, torna ad essere strettamente connesso ai temi della sicurezza nazionale come negli anni Settanta che poco o nulla hanno insegnato.
Cibo ed energia, saranno dunque le due direttrici lungo le quali la globalizzazione dovrà rimodularsi. Il corto e medio raggio saranno necessari per affrontare le difficoltà generate dalla pandemia e gli esiti imprevisti del conflitto in Ucraina. Si tratta di un cambio di passo e di visioni che costringerà a scendere a patti con impegni internazionali precedenti, con ideologie sclerotiche e politiche nazionali miopi. Il cortile di casa si farà più piccino in nome del freddo e della pancia?