Il combinato disposto tra dollaro forte e stretta monetaria della Federal Reserve può portare gli Usa a “esportare” la loro inflazione nel resto del mondo. Facendo pagare di fatto su scala globale il costo delle politiche di contenimento dei rincari dell’inflazione promosse da Washington nell’ultimo anno.
I rischi per l’Europa
E il primo bersaglio di questo processo di esportazione non è altri se non l’Europa, che è prima linea della grande strategia degli Usa di Joe Biden. Washington a parole rinsalda la fiducia e la tenuta dei legami transatlantici, nei fatti guida da dietro il campo occidentale mentre l’Europa è, non solo metaforicamente, un campo di battaglia. La guerra in Ucraina ha sconvolto il Vecchio continente, ma è la conseguente crisi energetica che sta portando l’Europa a essere in perenne tensione. E a vedersi di fatto stretta tra la Scilla dell’aggressività di Vladimir Putin e della weaponization delle materie prime e la Cariddi dell’inflazione alimentata, oltre che dalle tensioni geopolitiche, dalle deliberate scelte di Washington. Questo perchè è la natura stessa dell’inflazione tra le due sponde dell’Atlantico a essere diversa.
Da quando l’inflazione pandemica è decollata l’anno scorso, gli Stati Uniti hanno visto una corsa maggiore rispetto a quella dell’Europa. Ultimamente il divario si è ridotto, ma questo non racconta tutta la storia. Negli Stati Uniti l’inflazione è stata dovuta all’esplosione dei consumi dei cittadini dopo lo stop forzato del Covid-19. Le torrenziali iniezione di denaro pubblico che hanno scongiurato una calamità economica sono state spesso promosse tanto da Donald Trump quanto da Joe Biden sotto forma di trasferimenti diretti ai cittadini (helicopter money) e hanno portato milioni di famiglie ad avere saldi bancari più solidi rispetto a prima della pandemia. I risparmi hanno dall’inizio del 2021 guidato un cospicuo aumento della spesa dei consumatori, contribuito a pagare i debiti e, a volte, ridotto l’urgenza della ricerca di lavoro per milioni di americani.
Un’economia Usa surriscaldata
La conseguenza è stata il riversamento di miliardi di dollari nell’economia per spese e consumi in un tempo ristretto, senza che mercato del lavoro e produzione avessero un analogo effetto di rimbalzo. A ottobre 2021, il tasso di risparmio personale dei cittadini degli Stati Uniti, che aveva raggiunto il picco storico del 30% nell’aprile 2020, era tornato al livello di dicembre 2019 del 7,3%. Tutto questo ha alimentato il rally dei prezzi. “Questo è il tipo di inflazione che non scompare da sola“, ha commentato Ana Luis Andrade di Bloomberg Economics per giustificare la risposta della Fed: saldi aumenti del tasso di sconto e fine del quantitative easing. I tre rialzi dei tassi consecutivi che hanno, con la recente stretta dello 0,75%, portato alla forbice 3-3,25% il tasso di sconto negli Usa sono in tal senso comprensibili nel quadro delineato da Washington per la sua economia.
In Europa, invece, sino ad oggi si è continuato soprattutto a utilizzare la leva monetaria senza tenere in conto il fatto che non si parla di inflazione da domanda ma, piuttosto, di un’inflazione alimentata dalla claudicante offerta delle materie prime e da dinamiche politiche e valutarie direttamente riferibili alla condotta di Washington. A cui si aggiunge una volontà della Banca centrale europea di seguire la Fed sul suo terreno che si aggiunge all’indebolimento dell’Euro, moneta priva di un sottostante valore geopolitico e strategico che porta l’Unione Europea a importare inflazione da Washington.
Come è cambiato il quadro economico
Le dinamiche di questo processo le ha ben spiegate Luca Fornaro della Barcelona School of Economics in una recente pubblicazione in cui spiega la maggiore salienza dell’inflazione da domanda negli Usa e il rischio di una tempesta perfetta e di una stagflazione, ovvero del combinato disposto tra crescita nulla o stagnante e alta inflazione, per il Vecchio Continente. A ciò, aggiunge Bloomberg, si sommano le conseguenze della crisi energetica e delle tensioni globali: se classicamente la competizione si giocava sul fronte della svalutazione competitiva, ovvero della riduzione relativa del valore di una moneta finalizzata a accelerare l’export, oggi per molte nazioni la madre di tutte le battaglie è invece l’apprezzamento del cambio per tenere più saldamente di fronte allo tsunami energetico e al superciclo delle materie prime.
Per Fornaro, che si è confrontato con Bloomberg, la situazione è quella una “guerra valutaria inversa”: “Invece di perseguire il deprezzamento per aumentare le esportazioni, come molti hanno fatto prima della pandemia, ciò che ogni paese vorrebbe fare è apprezzare la propria valuta e gestire un deficit commerciale, il che aiuta a contenere l’inflazione a livello nazionale”. Gli Stati Uniti stanno chiaramente vincendo quella gara in quanto in controllo relativo dei fattori produttivi che oggi alimentano i rincari su scala globale: l’energia, in primis, ma anche il cibo e molte materie prime strategiche. A cui si aggiungono la primazia finanziaria e il vantaggio dato dal fatto che tutte le principali commodities del pianeta sono prezzate in dollari. Mentre l’Euro vive lo strapotere del biglietto verde, come avevamo previsto su IlGiornale.it a inizio guerra, come quello che di fatto è un danno strutturale. E da prima linea del contenimento europeo della Russia, da continente dipendente energicamente e a rischio di una crisi industriale e da entità senza un’agenda geopolitica autonoma l’Europa “importa” le conseguenze del contenimento Usa dell’inflazione. Pagandone di fatto dazio mese dopo mese.