Venti miliardi di dollari: a tanto ammontano gli investimenti previsti da Intel, il colosso statunitense della componentistica tecnologica, per rafforzare la sua capacità produttiva nel campo dei semiconduttori attraverso la realizzazione di due nuovi impianti in Arizona. Intel, nelle intenzioni del nuovo amministratore delegato Pat Gelsinger, dimostra una volta di più la consustanzialità tra apparati strategico-politici a stelle e strisce e big tech, annunciando un piano di portata colossale per le cifre mobilitate e le ambizioni in campo (render la compagnia autonoma nella produzione dei chip e diventare punto di riferimento e contoterzista per le altre compagnie) che va nella direzione auspicata dalle ultime amministrazioni statunitensi.
Donald Trump e Joe Biden, nel quadro della rivalità a tutto campo con la Cina, delle prospettive di rilancio dell’economia nazionale dopo la pandemia di Covid-19 e della nuova via “nazionale” alla tutela dei settori strategici che gli ultimi anni hanno inaugurato nelle maggiori economie della terra, hanno individuato nella filiera dell’elettronica e della componentistica un asset in cui rilanciare necessariamente la produzione interna statunitense. Il reshoring è entrato nel quadro delle strategie nazionali della nuova amministrazione con il programma “Build Back Better” sdoganato da Biden in campagna elettorale e con le prime ordinanze che hanno invitato alla costruzione di una catena del valore nazionale nei settori critici. E Intel ha prontamente presentato strategie industriali funzionali a questo obiettivo, che da sola assorbe una quota di risorse pari a quasi due terzi di quelle (32 miliardi di euro) che l’Unione Europea prevede di mettere in campo per rilanciare la sua presenza globale nel settore.
Il moltiplicatore degli investimenti di Intel sarà notevole e ben concentrato: quando le nuove fonderie saranno completate, nel 2024, si prevedono 3mila posti di lavoro ad alta specializzazione tecnica e alto salario creati e 15mila complessivamente generati dall’indotto. Proprio quanto atteso dall’amministrazione statunitense che, con la nuova strategia “build in America” mira ad unire prosperità e sicurezza nazionale. Ovvero coniugare le necessità della crescita economica con la possibilità di contare su un flusso continuo di componenti decisivi per l’industria tecnologica odierna. La carenza globale di semiconduttori cui si è assistito tra gennaio e febbraio e che, dall’elettronica all’auto, ha messo in difficoltà diversi settori dà l’idea della valenza strategica di un settore fondamentale e le cui dinamiche sono condizionate dalla volontà di poche aziende.
Non è solo la rivalità Usa-Cina a plasmare un settore problematico come quello dei chip, ma anche la sua concentrazione. Il big tech statunitense, in questo contesto, si trova nell’ambivalente situazione di doversi confrontare con concorrenti asiatici capaci di giocare a tutto campo, facendo la sponda sia con l’industria a stelle e strisce che con il rivale cinese. Tra i produttori sudcoreani, giapponesi e taiwanesi, è proprio un’azienda della Repubblica di Cina il punto di riferimento: la Taiwan Semiconductor Manufacturing Company, Tsmc, con sede proprio nell’isola nel Mar Cinese Meridionale.
La Tsmc è stata definita dal Financial Times “la meno nota tra le aziende più importanti del mondo” e detiene la maggioranza, relativa o assoluta, nella produzione di tutte le categorie di microchip. Tsmc produce circa il 30% dei chip più grandi di 130 nanometri e tra il 40 e il 65% nelle categorie di chip comprese tra il 28 e i 65 nanometri, ma soprattutto sta spingendo fortemente sulla miniaturizzazione dei chip e sulle tecnologie più avanzate progettando, nota il quotidiano della City di Londra, un impianto per la produzione di chip da 3 nanometri che possano essere “il 70% più veloci e performanti di quelli attualmente in uso, utilizzabili in device che vanno dagli smartphone ai supercomputer”. Dando nuova linfa alla celebre Legge di Moore che assume inversa proporzionalità tra dimensione dei chip e loro potenza di calcolo al crescere del progresso tecnologico e aprendo alle nuove sfide dell’innovazione di frontiera su cui gli Stati Uniti non vogliono rimanere indietro.
Apple, Amd, Qualcomm, per fare solo alcuni nomi, utilizzano regolarmente tecnologia Tsmc. Taiwan è ritenuta nazione amica, ma nel contesto della battaglia tecnologica globale gruppi come Intel preferiscono adeguarsi alla strategia nazionale e portare la catena del valore direttamente sul suolo statunitense. Da Microsoft a Ibm, Intel prevede di trovare sul suolo Usa alleati e clienti per cui realizzare chip di dimensioni vicine ai 7 nm, ed è pronta a inseguire la rivale Tsmc sul campo della miniaturizzazione e della potenza di calcolo. Sempre più in piccolo andranno, in futuro, le dimensioni dei chip. Sempre più in grande, invece, gli interessi che ruotano attorno al loro mercato e alla frontiera infinita delle nuove tecnologie.