Il principale produttore russo di microprocessori, Zelenograd Mikron, riceverà 7 miliardi di rubli dal governo per aumentare la produzione, ma i fondi assegnati, distribuiti nei prossimi 10 anni, non sono sufficienti.
Gli esperti russi hanno definito questo finanziamento come “estremamente piccolo”. I prodotti realizzati da Mikron, come riferito dal Kommersant, possono coprire solo un certo segmento del mercato elettronico russo, ovvero quello dei chip da 180, 90 e 65 nm (nanometri), mentre l’industria ad alta tecnologia ha bisogno anche di altri, più piccoli moderni ed efficienti, come quelli da 3 nm prodotti dalla sudcoreana Samsung. La Mikron, per il momento, riesce comunque a produrre componenti per infrastrutture critiche e per il settore della Difesa, tuttavia, gli esperti russi del settore affermano che l’importo di 7 miliardi di rubli è troppo poco consistente per lo sviluppo della società. Mikron ha bisogno del sostegno statale per padroneggiare le nuove tecnologie e se, insieme al ridimensionamento della produzione, non si verifica un tale sviluppo, la società russa dovrà affrontare una “stagnazione e un vicolo cieco”.
Esiste anche una grave carenza di personale per i produttori russi di componenti elettronici, come sostiene Olga Grekova, capo del Lighting Engineering Consortium: secondo lei, alcune aziende ora chiedono di sovvenzionare l’aumento degli stipendi dei dipendenti che effettuano la manutenzione delle attrezzature di produzione in modo da evitare che il personale migri verso altre società con stipendi più elevati.
L’approvvigionamento di microprocessori per la Russia ha subito un brusco contraccolpo per via delle sanzioni internazionali: già lo scorso giugno era stato lanciato l’allarme dalla Tass in merito alla carenza di chip quando è stato sottolineato che l’azienda taiwanese Tsmc, leader nella produzione dei chip più avanzati con il 54% del mercato mondiale, aveva interrotto la produzione di processori per Baikal, Elbrus e altre società russe. Ci sono cinque principali sviluppatori di microprocessori in Russia che forniscono circuiti per automazione industriale, centrali di server, sistemi di archiviazione dati, supercomputer, computer personali e industriali, apparecchiature di telecomunicazione e reti neurali. Oggi l’infrastruttura delle informazioni critiche russa è dominata da apparecchiature e software di produttori stranieri: nei personal computer e server governativi, ad esempio, Ibm ha una quota importante nei sistemi di archiviazione dati.
Un altro problema è prettamente infrastrutturale: gli sviluppatori di processori russi sono per lo più aziende fabless, ovvero che non hanno proprie fabbriche per la produzione. Ciò significa che sviluppano l’architettura e il design del processore, ma il chip come prodotto finale viene prodotto da altri tramite contratti: una pratica piuttosto comune nel mondo dei microprocessori.
Oggi in Russia non ci sono fabbriche per la produzione di processori secondo standard inferiori a 65 nm: la NM-Tech ha iniziato solo recentemente a costruire una fabbrica per produrre processori a 28 nm. Inoltre, a causa delle sanzioni, si è persa anche la possibilità di avvalersi dei brevetti depositati al di fuori della Federazione Russa.
Questo limite è stato particolarmente evidenziato dal conflitto in Ucraina, dove i sistemi di guida di velivoli e missili da crociera russi, hanno al loro interno microchip fabbricati in occidente o comunque da produttori che ora hanno posto l’embargo alla Russia.
Mosca pertanto sta correndo ai ripari cercando di ottenere quello di cui abbisogna attraverso canali alternativi che vanno dall’acquisto su mercati online non regolamentati, all’utilizzo di rivenditori di terze parti sino a società fittizie dedite al contrabbando high-tech. Inoltre, Paesi come la Corea del Nord e l’Iran che hanno accumulato anni di esperienza per aggirare le sanzioni, molto facilmente potrebbero aver segnato la strada per la Russia che si è pertanto preparata ad affrontare l’embargo nei mesi scorsi. Si tratta comunque di palliativi, in quanto la domanda di chip si ritiene sia orientativamente superiore rispetto a questi canali di approvvigionamento paralleli, pertanto Mosca deve guardare, per forza di cose, alla produzione nazionale, che come abbiamo visto difetta di fondi e di tecnologia idonea.
Nonostante sia molto difficile, quasi impossibile, tracciare la filiera di approvvigionamento dei chip in dettaglio, sappiamo che Mosca sta incontrando serie difficoltà in quanto durante gli eventi bellici le sue forze armate hanno cominciato a utilizzare armamenti considerati obsoleti come il missile da crociera aviolanciabile Kh-22, che si riteneva fosse stato ritirato dal servizio.
La penuria di microprocessori ha avuto anche effetti sulla produzione di carri armati: sappiamo infatti che le due principali fabbriche russe di tank, la Uralvagonzavod e la Chelyabinsk Tractor Plant, hanno interrotto la produzione per mancanza di componenti, da qui il ricorso ai T-62 tenuti “in naftalina” nei depositi dell’era sovietica, il blocco delle esportazioni dei T-72, che ora vengono dirottati al fronte e l’arrivo di carri “da parata” come i T-90 che si vedono durante la sfilata militare nella Piazza Rossa del 9 maggio.
La Russia ha un amico nella Cina, che ha già fornito al Paese veicoli di comando e controllo, oltre a componenti per droni e motori navali, ma proprio come Mosca, anche Pechino fatica a raggiungere lo standard di qualità e potenza dei chip dei suoi concorrenti, avendoli importati anch’essa da Taiwan prima del blocco imposto dagli Stati Uniti prima del conflitto in Ucraina. Nel medio/lungo periodo, quindi, l’embargo sui microchip sarà quello che farà sentire il suo peso sull’economia russa più di ogni altra sanzione elevata dall’Occidente, stante il fatto che per avviare una nuova produzione occorrono dai tre ai cinque anni.