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“Vogliamo raccontare i drammi senza fine del Congo, una terra tormentata da gruppi armati anche di matrice islamista, depauperata dallo sfruttamento delle risorse minerarie, travolta da epidemie e da sfide che riguardano tutti noi. Vogliamo farlo attraverso lo sguardo di chi da anni si occupa di questo Paese: il fotografo Marco Gualazzini e il giornalista Daniele Bellocchio.
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La Repubblica Democratica del Congo è Paese in cui si sovrappongono ricchezze naturali sconfinate e tragedie umane con pochi eguali al mondo. In cui convivono la ricchezza che la geologia e la natura hanno assegnato al grande Stato dell’Africa centro-meridionale e la miseria di un popolo lacerato da conflitti e dalla lotta per accaparrarsele. Da Cuore di tenebra, il romanzo di Joseph Conrad duramente critico del tardo-colonialismo, all’insurrezione del Katanga, dalla corsa al caucciù che animò il genocidio di inizio Novecento ad opera dei colonialisti belgi al servizio del re Leopoldo all’era delle terre rare sia la realtà che le opere di fantasia hanno colto la profondità del dualismo che divide questo Paese.

La parola chiave è geoeconomia, ovvero il rapporto tra potenza geopolitica e dinamiche economico-industriali, in nome della quale diverse potenze mettono gli occhi sul Congo contribuendo di fatto alla sua fragilità. “Siamo uno dei Paesi più ricchi del pianeta, eppure i miei compatrioti sono tra i più poveri al mondo”, ha dichiarato il medico congolese Premio Nobel per la Pace Denis Mukwege. Le sue parole raccontano bene il dolore di una nazione intera.

La battaglia delle risorse

Sfruttata, come detto, dal sovrano belga Leopoldo II per le riserve di caucciù, la terra congolese è stata in seguito attenzionata dai grandi capitali britannici, francesi e statunitensi per le risorse di petrolio e diamanti, mentre allo stato attuale la presenza del cobalto costituisce una risorsa preziosissima. Infatti il cobalto svolge un ruolo importante nelle batterie agli ioni di litio, fondamentali per diversi prodotti legati alla transizione ecologica. Ma non finisce qui. Ognuno degli smartphone di più recente generazione, ad esempio, contiene una piccola quantità di coltan, ingrediente indispensabile per ottimizzare il consumo di energia nei chip di nuova generazione e nei prodotti legati ai semiconduttori. La funzionalità di ogni apparecchio elettronico dipende proprio dal coltan e nel contesto del mercato del materiale formato dalla lega columbite-tantalite ad avere un valore maggiore sono i minerali che offrono un prodotto a più alto tasso di tantalite, quale il coltan del Congo.

La guerra del Kivu, che da tempo insanguina il Congo, è un esempio di come la lotta tra le fazioni, incentivata dalla fame delle potenze internazionali per i prodotti congolesi, abbia avuto un radicamento nella lotta per le risorse: complice la presenza di milizie proxy del vicino Ruanda, che pur non avendo risorse proprie è uno dei maggiori esportatori mondiali di coltan, si è scatenata una guerra per il controllo del mercato di un prodotto che rappresenta una fonte di introiti fondamentale. Nel 1998 costava 2 dollari al chilogrammo, nel 2004 – quando la domanda era estremamente elevata – è arrivato a toccare i 600 dollari, oggi vale tra i 100 e 150 dollari al chilogrammo e ha alla base un’economia avente lo sfruttamento sistemico di manodopera a basso costo, spesso infantile, nel processo di estrazione come vettore.

Le ricadute sulla crescita del Paese sono minime. Nel 2018 il presidente della Repubblica Democratica del Congo Joseph Kabila, poco prima della rimozione dal potere, è riuscito a far approvare il nuovo Codice per il settore minerario che ha fatto aumentare la royalty sul cobalto dal 2% al 10%. Il processo è stato criticato da molti gruppi attivi in Congo (Glencore, China Molybdenum, CDM, Rangold e Ivanhoé) ma non ha migliorato la condizione della popolazione di circa 90 milioni di abitanti che ancora oggi vive con un Pil pro capite di meno di 500 dollari l’anno e in cui quasi 7 milioni di persone, circa il 25% della popolazione (27,3 milioni di abitanti), vivono in uno stato continuo di insicurezza alimentare Tutto questo mentre la battaglia per le risorse continua.

La Cina, la nuova “padrona” del Congo

“Negli ultimi tre anni, nelle regioni orientali“, nota Avvenire, “si stanno verificando migrazioni di massa a seguito di atti violenti di guerriglia ad opera di gruppi jihadisti in realtà eteroguidati da interessi stranieri, Cina e Turchia in primis, sui giacimenti di terre rare, coltan, oro”. In passato erano stati gli occidentali a cercare i diamanti, l’oro, il petrolio, l’uranio del Congo. Oggi, invece, “esiste uno spregiudicato consorzio di società statali cinesi che hanno firmato un accordo per diritti di estrazione di 10 milioni di tonnellate di rame e 600 mila tonnellate di cobalto durante un periodo di 25 anni, per un valore complessivo tra i 40 e gli 84 miliardi di dollari”, siglato nel 2007 e denominato “minerali per le infrastrutture”. In cambio la Cina si sarebbe impegnata ad investire oltre 6 miliardi di dollari nel miglioramento delle tecniche estrattive” a puro vantaggio dell’economia di Kinsasha, che però non sono ancora stati erogati.

La Cina è ben posizionata lungo l’intera catena del valore delle terre rare, guida l’industria tecnologica dalla raffinazione del cobalto (82%) fino alla produzione di anodi e catodi (61%-83%) e è competitiva sui semiconduttori anche grazie alla partecipazione al grande gioco congolese. Il 40 e il 50 per cento della produzione di cobalto della Repubblica Democratica del Congo è di proprietà di società cinesi.

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CAUSALE: Reportage Congo
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La ricchezza di risorse è la benedizione tramutatasi in maledizione per il Congo. La geoeconomia la matrice della continuazione della trappola della povertà, piuttosto che lo strumento politico per emanciparvisi. La competizione globale diventa la giustificazione per azioni ciniche verso un Paese fragile. E dopo caucciù, oro, diamanti, petrolio, uranio, cobalto, coltan, terre rare è bene ricordare che la corsa mineraria al Congo non finisca qui: il Paese possiede anche riserve di rame, zinco, stagno, argento, carbone, manganese, tungsteno, cadmio in cui analogamente si scatenano le stessa partite di sfruttamento. Tanto da aver portato, in certi casi, i regolatori internazionali a intervenire. Negli Stati Uniti, nota l’Ispi, “il Dodd-Frank Act, la corposa legge per la riforma di Wall Street, in una sua parte chiede alle compagnie multinazionali di dichiarare la provenienza delle proprie materie prime. Nel frattempo, anche l’Unione Europea si era mossa e, sulla falsariga del Dodd-Frank Act, nel 2017 aveva approvato un regolamento che impediva l’importazione nell’Unione Europea di cassiterite (da cui si ottiene lo stagno), wolframite (tungsteno), columbo-tantalite e oro provenienti da zone di conflitto”. Ma fermare il fiume in piena della guerra congolese per le risorse è ora più che mai complesso.

Anche l’ambiente sotto attacco

Anche il legno è al centro di partite importanti: assieme al Gabon, la Repubblica Democratica del Congo produce  l’80% di tutto il legname prodotto nel continente africano, spesso esportato illegalmente verso Cina, Stati Uniti e Russia per essere mandato poi nei mercati di sbocco verso le industrie occidentali. Iil legname congolese spesso esportato illegalmente per mezzo di gruppi terroristici e milizie alimenta la corsa al mercato europeo in cui la Cina è il primo fornitore (5,025 miliardi di euro di mercato), seguita dagli Usa (poco meno di 4 miliardi) e dal Brasile (2,654 miliardi), unico a rifornirsi sul fronte interno in questo podio. Nel 2019 un rapporto dalla ong ambientalista britannica Envirnmental Investigation Agency (Eia) ha segnalato che spesso il legname proveniente dalla foresta pluviale tropicale del Congo è spacciato in Occidente come “eco-friendly”, e questo inoltre danneggia dei santuari naturali che trasformano in zone di guerra aree da cui il Paese potrebbe ottenere vantaggi come capitale del turismo africano.

Vale per tutti l’esempio del parco del Virunga, rifugio degli ultimi gorilla di montagna e di altre specie uniche come l’Okapi, è diventato terreno di scontro fra gruppi armati che si fronteggiano per il controllo delle risorse naturali, in una guerra che ha coinvolto anche ranger e guardiacaccia e ha fatto sa sfondo all’agguato contro l’ambasciatore italiano Luca Attanasio ucciso nel febbraio 2021. La foresta congolese è l’estrema frontiera dell’assalto alla diligenza del martoriato Paese africano e la guerra contro di essa danneggia l’economia del Paese, favorendo i gruppi illegali, depotenzia il patrimonio turistico della nazione e mette in moto anche profondi problemi ambientali, come del resto ha ricordato Terra Nuova: “Nel 2017 , un team di scienziati congolesi e britannici ha confermato che questa foresta ospita anche una delle torbiere più grandi del mondola cui mappa è stata pubblicata per la prima volta nel gennaio 2017 sulla rivista scientifica Nature. Le torbiere sono ambienti ricchissimi di biodiversità e capaci di immagazzinare grandi quantità di carbonio: quelle nella foresta del bacino del Congo contengono oltre 30 miliardi di tonnellate di carbonio (equivalenti a quanto potrebbero emettere gli Stati Uniti in vent’anni) e coprono un’area di 14 milioni di ettari (sono cioè più estese dell’Inghilterra)”, svolgendo un ruolo ambientale paragonabile solo a quello dell’Amazzonia e della taiga siberiana.

Il Congo è dunque crocevia di una partita geoeconomica su più livelli che lo vede sempre vittima di interessi terzi e preda della maledizione delle risorse. Tutto cospira perché la nazione che poteva essere pronta a trasformarsi in un paradiso sia diventata un vero e proprio inferno in Terra. E senza porre fine al circolo vizioso dello sfruttamento, il destino che ha accompagnato questa terra d’Africa dall’era coloniale in avanti non cambierà.

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