Stef Blok, ministro degli Esteri olandese, riassume con le sue parole tutti i travagli comunitari sulla realizzazione del Recovery Fund quando, al termine dell’incontro romano con i ministri Luigi Di Maio ed Enzo Amendola, in videoconferenza parla in maniera lapidaria: “Tutti vogliamo l’accordo sul recovery fund, ma al momento non c’è garanzia di successo”.
Next Generation Eu, il fondo proposto dalla Commissione di Ursula von der Leyen, ancora non esiste ma è una costruzione fragile, la cui realizzazione è minata alle fondamenta dall’assalto alla diligenza dei Paesi frugali guidati dall’Olanda, che chiedono condizionalità severe sui prestiti e una riduzione dei contenuti a fondo perduto. E cominciano a mettere i paletti su come i Paesi percettori dei finanziamenti dovrebbero adoperarli.
Blok afferma che a suo parere non c’è necessità di ottenere un Recovery Fund a ogni costo, ma Paesi come Francia, Germania e Italia ci puntano con maggior forza, e Ursula von der Leyen da Bruxelles potrebbe essere pronta a fare una condizione ai Paesi pro-austerità: fonti diplomatiche raccolte da Il Messaggero parlano di un clima di generale determinazione a concludere un accordo, e su questo fronte i “falchi” potrebbero essere ammorbiditi dall’inserimento di clausole temporali ben precise sulla spesa dei fondi Ue.
Come scrive il quotidiano romano, “secondo la proposta von der Leyen gli stati dovrebbero impegnare entro il 2022 circa il 60% delle risorse di Next Generation Eu”, per le quali la proposta iniziale parla di 750 miliardi di euro, “il resto entro il 2024. Nel dettaglio”, in particolare, “gli accordi sui prestiti vanno firmati entro il 2022”, con le tranche spalmate fino al 2025. Olof Scholz e Bruno Le Maire, a capo dei dicasteri di Berlino e Parigi, sono concordi sul fatto che il Recovery Fund dovrebbe versare agli Stati membri dell’Ue almeno 500 miliardi di euro dal 2020 al 2022. In questo caso, la concessione che potrebbe convincere i falchi sarebbe un ulteriore contingentamento dei tempi e delle modalità di erogazione dei fondi comunitari che, ricordiamolo, saranno diretti non alle singole casse nazionali ma a mobilitare progetti ad hoc.
Blok, del resto, ha ricordato che “gli aiuti sono legati alla pandemia e non devono servire per risolvere problemi strutturali precedenti”: il governo olandese di Mark Rutte, che nella discussione sul Recovery Fund gioca il suo futuro politico, punta a far esaurire tutta la potenza di fuoco del fondo, possibilmente ridotta di circa un terzo, entro il 2022 sulla base di questo ragionamento. L’ovvio corollario di una constatazione di questo tipo è il fatto che l’Olanda e i suoi alleati sperano che i Paesi potenzialmente destinati a ricevere i fondi non facciano in tempo a mobilitare l’intero apparato di risorse nei tempi previsti, specie considerato il fatto che NextGen sarà pienamente operativo solo a inizio 2021.
Giuseppe Conte ha provato a portare avanti un gioco delle tre carte autoreferenziale cercando di far passare il taglio (momentaneo) dell’Iva come riforma praticabile con i fondi comunitari, pur sapendo bene che non sarà così.
Il Recovery Fund “Next Gen Eu” presuppone interventi mirati, così come il Mes è attivabile in questa fase solo per spese sanitarie. In particolare, ha ricordato a Il Tempo l’eurodeputato Massimiliano Smeriglio, “i soldi a fondo perduto hanno premialità progettuali su innovazione, green new deal, inclusione sociale e conoscenza”.
Dunque un Paese come l’Italia, per riceverne una quota consistente (ammesso che ciò porti a un dividendo positivo) si troverebbe di fronte a un paradosso. Da un lato dovrebbe immaginare una grande strategia per la ripresa, in modo tale da combinare i fondi di NextGen con quelli che potrebbe mobilitare un’istituzione come la Banca europea degli investimenti e puntare a una ripresa ben congegnata. Dall’altro dovrebbe tenere in considerazione il fatto che su qualsiasi progetto, dalle infrastrutture all’energia, coperto dai fondi di NextGen l’Unione avrebbe il potere finale di scrutinio, potendo con un solo stop pregiudicare una politica di ampio respiro di cui, in ogni caso, non si vedono nemmeno le avvisaglie. Risulta fallace quando dichiarato dall’ex premier Paolo Gentiloni, secondo il quale “la storia delle condizionalità imposte dall’alto per salvare i singoli Paesi è una storia finita, è alle nostre spalle”
Torna, in maniera più soft, l’ideologia del “vincolo esterno”: aiuti (quanti, non si sa) sì, ma condizionati ai paletti dell’Unione Europea. Che arriva al paradosso di chiedere ai Paesi di avere una sostanziale capacità di programmazione strategica e di mobilitare investimenti in tempi tutto sommato brevi dopo aver per anno predicato il taglio alle spese produttive dai bilanci, l’austerità e una sostanziale caduta degli investimenti in tutta Europa. Il tutto, poi, indicizzando la ripresa di ogni Paese a programmi come il Green New Deal, la cui utilità e la cui realizzabilità sono ancora tutte da verificare. Sull’incapacità di Paesi come l’Italia di adeguarsi al new normal puntano quei Paesi, come l’Olanda, che chiedono di ridurre le tempistiche di erogazione.
La governance politica della crisi sino ad ora porta a escludere che l’Italia possa farsi trovare pronta nel caso in cui quella del Recovery Fund sia una “guerra-lampo”. Il presidente del Consiglio Giuseppe Conte si potrebbe rendere conto da un momento all’altro che nei rapporti con l’Europa il problema più grande non è ottenere i fondi, ma capire come utilizzarli: ma questo implicherebbe un’agenda di politica economica, fino ad ora carente in un governo, quello giallorosso, che sembra barcamenarsi per tirare a campare. Stati come l’Olanda lo hanno capito e aumentano la loro pressione per difendere il più possibile il loro portafogli da esborsi eccessivi nel fondo per la ripresa.