La crisi del coronavirus ha scoperchiato il vaso di Pandora delle problematiche di governance dell’economia europea. Un’architettura che, nel tentativo di unificare nel quadro dell’Ue sistemi molto eterogenei, ha finito troppo spesso per far assurgere a regole ritenute “oggettive” principi istituzionali, equilibri strategici e parametri facenti riferimento a aree ben precise come la Germania e i Paesi limitrofi. Focalizzando troppo spesso l’attenzione sul contenimento della spesa pubblica e dei bilanci, dopo la crisi del 2010-2012 l’Unione Europea ha spesso incentivato un aumento delle tensioni scatenate dalla crisi dei debiti sovrani.

La pandemia, crisi simmetrica di portata globale, ha spinto a risposte emergenziali che andavano nella direzione auspicata da Mario Draghi nel suo intervento sul “Financial Times” di marzo: la Commissione Europea ha sospeso il Patto di stabilità, allentato le regole sugli aiuti di Stato, progettato il Recovery Fund per avviare i processi di mutualizzazione del debito. Nel 2020 questa prassi è stata giocoforza inghiottita anche dai falchi austeritari più sbilanciati sul tema del rigore, complice la svolta pragmatica di Angela Merkel, e il 2021 è iniziato col proseguimento della pandemia che ha imposto un mantenimento del new normal. Ma che ne sarà di questa svolta in futuro? L’Ue si divide oggigiorno tra tensioni molto differenti: tra una constatazione pragmatica della necessità di spingere a tutto campo sulla ripresa economica del Vecchio Continente con una svolta “eterodossa” rispetto al passato e i richiami del ritorno alle regole, al rigore, a una censura di conti e bilanci di matrice essenzialmente politica.

Incarnazione di questa tensione è Valdis Dombrovskisil vicepresidente di Ursula von der Leyen che coordina l’azione della Commissione europea sulle politiche economiche e supervisiona il nostro Paolo Gentiloni. Dombrovskis, ex primo ministro lettone divenuto celebre negli anni scorsi per il suo afflato rigorista, da un lato non ha potuto non rendersi conto della necessità della svolta, dall’altro incarna la tentazione del ritorno al passato in diversi suoi interventi.

Il 26 febbraio Dombrovskis è intervenuto in apertura alla riunione della Comitato consultivo europeo per le finanze pubbliche, un organo della Commissione istituito nel 2016 e rinnovato nel 2019 per un secondo triennio per creare proposte politiche da sottoporre agli organi decisionali di Bruxelles, presieduto dall’economista danese Niels Thygesen.

Nel suo discorso Dombrovskis ha rimarcato punti importanti, che permettono di capire questa contraddizione. Ha dichiarato di ritenere necessario che l’Ue continui a tenere stimolata l’economia del Vecchio Continente permettendo politiche di bilancio espansive “che non devono essere abbandonate con troppo anticipo”. Ma ne ha ribadito la natura temporanea e non ha escluso nel 2022 un ritorno alle maglie del Patto di stabilità, delle regole meccaniche come il 3% del rapporto deficit/Pil. Tuttavia, ha aperto al rispetto della realtà dei fatti e dell’ordinata gestione dell’analisi economica sottolineando che la Commissione farà a meno in futuro di parametri meccanicistici e fuorvianti come l’output gapche misura la differenza tra Pil “potenziale” di un Paese e produzione effettiva, e il saldo strutturale di bilancio. La cui natura problematica avevamo più volte criticato ricordando il pensiero dell’economista italiano Piero Sraffa, ma la cui ottusa difesa aveva spinto Dombrovskis e Pierre Moscovici a una guerra aperta contro l’esecutivo italiano ai tempi della manovra economica del 2018 scritta dal governo Conte I.

Un dualismo di questo tipo si è manifestato anche sul fronte del Recovery Fund. “Se spese bene”, ha dichiarato Dombrovskis, “le sovvenzioni del Recovery fund consentiranno agli Stati membri di sostenere la ripresa economica e stimolare una maggiore crescita potenziale effettuando investimenti e riforme di alta qualità”. Allo stesso tempo, nota l’ex premier Lettone, “poiché le sovvenzioni del Recovery non si aggiungono ai deficit e al debito nazionali, possono migliorare le proprie posizioni di bilancio”, fattispecie che sembra addirittura apparire un sostegno implicito al concetto della mutualizzazione del deficit. Ma Dombrovskis ha ricordato la necessità di sostenere l’applicazione delle raccomandazioni-Paese della Commissione ai Paesi membri, ovvero le “condizionalità” e le riforme strutturali le cui logiche di fondo sono ancora figlie dell’Europa del rigore, che chiedeva ai Paesi rimodulazione delle pensioni e tagli al welfare in nome della competitività. Non a caso più volte sul Recovery, ai tempi del governo Conte II, Dombrovskis ha attaccato l’Italia proprio per la mancanza di riferimenti espliciti a tale riforme nella debole bozza del Piano nazionale di ripresa e resilienza presentata a Bruxelles. Attacchi ineleganti, compiuti in periodo di crisi di governo, che sono apparsi eccessivi nei toni e nelle modalità.

Sul fronte degli aiuti alle imprese, infine, Dombrovskis ha di fatto avallato in teoria la “linea Draghi”, che perora la focalizzazione del sostengo pubblico, nei prossimi mesi, ai settori e alle aziende maggiormente in grado di riprendere fiato e rilanciarsi, evitando sussidi ad imprese decotte che non sopravvivrebbero senza l’appoggio nazionale. Ma – ci teniamo a sottolinearlo – c’è grande differenza tra sostenere una tesi del genere nel quadro di un piano neo-keynesiano per la ripresa complessiva dei Paesi e per un’incentivazione della “distruzione creatrice” funzionale all’innovazione dei settori in crisi, unita alla protezione dei lavoratori destinati a perdere il posto, e farlo nell’ottica di un ritorno all’austerità che impedirebbe ogni prospettiva di ripresa. Dombrovskis non ha chiarito affatto la sua visione di medio-lungo termine sul tema, combinando una sostanziale ambiguità sul tema alla preoccupante percezione che, nei palazzi del potere europeo, ci sia chi non veda l’ora di un ritorno al passato. Che ora più che mai apparirebbe antistorico e disfunzionale per la ripresa europea. Ai governi dei Paesi che più devono spingere sul fronte della lotta all’austerità, Italia in primis, il compito nei prossimi mesi di evitare che queste tentazioni diventino realtà tornando protagonisti del dibattito in sede comunitaria.

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