Come se non bastassero già le tensioni commerciali, fra Stati Uniti ed Europa montano nuove tensioni. L’oggetto della disputa è rappresentato dalle tariffe digitali che i Paesi europei minacciano di mettere in atto per colpire le società tecnologiche americane operanti oltreoceano. Per intenderci, stiamo parlando dei ”Gafa”, cioè di colossi del calibro di Google, Amazon, Facebook, Apple e altri ancora, accusati da Bruxelles di fare buon viso a cattivo gioco nel Vecchio Continente approfittando, tra l’altro, di un sistema di tassazione vantaggioso.

L’idea di mettere in campo una web tax europea arriva da Emmanuel Macron. La Francia che già dallo scorso luglio può contare su una tassa del genere. Parigi, infatti, ha imposto un’aliquota sulle entrate che le aziende statunitensi citate incassano in territorio francese; con validità retroattiva per l’intero 2019, la web tax transalpina colpisce con un prelievo del 3% le società che hanno ricavi globali pari almeno a 750 milioni di euro, dei quali almeno 25 generati in Francia. Molti altri Paesi europei sono pronti a imitare Parigi, compresa l’Italia; il ministro dell’Economia, Roberto Gualtieri, ha confermato che a partire da gennaio entrerà in vigore la web tax prevista nella legge di bilancio di quest’anno.

L’idea dell’Europa e l’ira di Washington

Temendo un vero e proprio effetto contagio, gli Stati Uniti hanno ringhiato contro la Francia, minacciando di inondare Parigi (e chiunque gli andrà dietro) con dazi “fino al 100%”. Prima di partire per il vertice Nato di Londra, Donald Trump è stato chiarissimo: Washington reagirà contro tutti i regimi di web tax che, a detta della Casa Bianca, discrimineranno con “oneri spropositati” le società americane operanti all’estero. Il fatto è che l’idea di Macron di creare una web tax europea, a suo tempo, era stata accolta favorevolmente dall’allora Commissione Juncker. Ed è così che l’anno scorso l’esecutivo Ue ha proposto di piazzare un’aliquota del 3% sui ricavi dei colossi digitali con un fatturato di almeno 750 milioni di euro l’anno “globali”, di cui 50 milioni sul territorio europeo. Il provvedimento avrebbe portato nelle case dei vari governi europei più o meno 5 miliardi di euro all’anno.

In un primo momento, Bruxelles pensava di far confluire questi denari nel bilancio Ue, anche se la commissione aveva poi stabilito di lasciare le entrate ai rispettivi Paesi. Insomma, almeno da un punto di vista teorico l’Europa era pronta a colpire gli Usa. Il problema è che alcuni governi europei hanno fatto muro, per paura di perdere i vantaggi derivanti dal possesso di un fisco molto più agevolato rispetto alla media europea. È proprio grazie a questa condizione, infatti, che le multinazionali digitali decidono di insediare nei suddetti Paesi le loro basi operative, con l’intenzione di aggirare il fisco degli altri Paesi in cui generano profitti. La lista dei “dissidenti” includeva Olanda, Irlanda, Lussemburgo, Cipro, Malta e perfino Germania. Berlino, proprio quando gli Stati Uniti hanno iniziato a spazientirsi, ha predicato prudenza. Morale della favola: la prima idea di imporre una web tax europea è finita in un nulla di fatto.

Evitare lo scontro con gli Stati Uniti

Adesso la questione è tornata di stretta attualità. Von der Leyen, per evitare lo scontro frontale con Washington, ha incaricato Paolo Gentiloni di trovare una soluzione che accontenti tutti. Una soluzione che eviti l’imposizione di dazi americani sull’Europa ma che costringa i colossi tecnologici Usa a pagare una quota ragionevole sui loro enormi ricavi. C’è un anno di tempo per arrivare alla fumata bianca, che non è certo garantita. E così molti Paesi hanno iniziato a impacchettare norme nazionali per colpire i “Gafa”, con il rischio di inimicarsi Washington. Oltre a Francia e Italia, anche Austria, Regno Unito, Belgio, Spagna, Ungheria, Repubblica Ceca, Polonia e Slovenia sono pronti ad adottare una web tax. Dall’acciaio alle automobili passando per la sfida Airbus-Boeing: adesso il testa a testa Europa-Usa si trasferisce anche sulla tassazione dei colossi web.