La moneta non è solo mezzo di pagamento, equivalente generale e riserva di valore. Essa è anche, se non soprattutto, strumento di potere. Sommo risultato di una grande potenza è imporre il corso forzoso della propria valuta come mezzo di pagamento nel contesto internazionale. O creare le condizioni per render gli scambi economici internazionali dipendenti dal fluire della sua divisa.

Prospettiva, questa, ben capita dagli Stati Uniti dopo la seconda guerra mondiale, quando grazie alla costruzione dell’architettura geopolitica (Nato e dislocamento militare globale), istituzionale (Fmi, World Bank e precursori del Wto) e ideologica (con l’equiparazione tra libertà democratica e liberalismo economico) necessaria riuscirono a fare del dollaro la moneta di riferimento degli scambi internazionali.

Allo stato attuale delle cose, anche a quattro decenni dalla fine della convertibilità del dollaro con l’oro e dopo il trauma della Grande Recessione, il dollaro conserva uno status di primazia non indifferente. Tuttavia, esso risulta potenzialmente sempre più erodibile mano a mano che il centro propulsore della crescita economica globale si sposta verso l’Asia-Pacifico ed emergono sfide alla proiezione di potenza del biglietto verde.

Sfide che possono essere di matrice anche interna, come dimostrato nel voto del 2016 che ha incoronato Donald J. Trump, manifestazione di un dilemma interno agli States riguardo al rapporto con la globalizzazione. Nel 2016, fa notare Osservatorio Globalizzazione, è emerso il contrasto “tra le due coste, centro cosmopolita dell’economia globalizzata, della finanza (predominio del Dollaro) e dell’innovazione (predominio tecnologico) e quindi due vere punte di lancia del potere americano globale  e gli stati centrali agricoli e industriali […] Per la prima volta il Nord industriale e il Sud agricolo, con l’elezione di Trump, si sono saldati contro le coste”, rendendo meno lineare il rapporto tra Washington e quella globalizzazione che rimaneva, inevitabilmente centrata sugli States e, soprattutto, sui commerci denominati in dollari.

Sfide che si sostanziano, in ogni caso, nell’emersione di valute potenzialmente rivali. Allo stato attuale delle cose, tra le valute riconosciute nel paniere del Fmi i concorrenti principali del dollaro possono essere limitati all’euro e allo yuan.

Euro e yuan sono le uniche divise che hanno, come il dollaro, una proiezione globale e la possibilità di fungere da ancoraggio a altre valute nel resto del mondo. Negli ultimi anni, scrive Il Sole 24 Ore, “il dollaro ha consolidato il suo ruolo di àncora – l’«esorbitante privilegio», secondo la definizione coniata negli anni Sessanta dall’allora ministro delle Finanze francese Valéry Giscard d’Estaing – visto che caratterizza il 62% dei 195 Paesi; segue l’euro, con il 28%, con un peso però decrescente negli ultimi anni”.

L’euro, come noto, non ha però alle spalle l’architettura politica, militare e strategica che denota il dollaro. Pur rappresentando una valuta capace di coprire gli scambi del più ampio mercato unico al mondo, all’euro manca la capacità geopolitica di agire. Quando nel 2000, interessato dall’entrata in vigore dell’euro, l’Iraq di Saddam Hussein pensò di utilizzarlo per quotare il suo petrolio sui mercati internazionali, Bruxelles non seppe porre in essere alcuna azione a riguardo. Al tempo stesso, in diverse situazioni di crisi internazionale, comprese le diverse riguardanti sanzioni applicate dagli Stati Uniti, i Paesi europei sono sempre andati al traino del biglietto verde. La quota dell’euro nei Paesi “ancorati” a valute terze riguarda, principalmente, i Paesi africani legati al Franco Cfa/Eco, dunque espressione di una strategia francese e non paneuropea.

Più cogente la sfida posta dallo yuan, specie se la Cina saprà ben giocare la partita dell’avvicinamento al rublo russo, con Mosca che spinge fortemente sulla de-dollarizzazione dei suoi scambi energetici e mira a rafforzarla acquisendo ingenti quantitativi d’oro. ” Un re dollaro è in piena salute, un re euro è appannato, ma un terzo aspirante re ha forse iniziato una lunga marcia”, chiosa Il Sole, ricordando come in ogni caso si parli di manovre destinate a concretizzarsi sul lungo periodo.

La realtà dei fatti parla di una Cina in pieno dinamismo, decisa a conquistare quote di influenza in Africa, America Latina e Asia indo-pacifica sul profilo monetario, a entrare nei mercati energetici e a promuovere lo yuan come valuta della “Nuova Via della Seta“. Ma parla anche di Pechino come di un attore che continua a giocare secondo le regole della globalizzazione plasmata da Washington  ambendo a una leadership economica e non geopolitica. Ma all’Impero di Mezzo piacciono le sfide di prospettiva. Quel che è certo è il fatto che, se l’era del dollaro finirà, non sarà per mano di un’Europa a cui manca completamente la concezione di come fare una reale politica di potenza nell’era globale. Una moneta senza uno Stato di cui soddisfare gli appetiti o senza un progetto politico alla guida, in fin dei conti, è poca cosa.