La sorprendente stabilità del prezzo del petrolio nonostante le ultime crisi mediorientali in Iran a inizio anno e quella più recente in Libia con il blocco petrolifero imposto da Khalifa Haftar, oltre a tranquillizzare i mercati finanziari e i governi occidentali, dimostra ciò che diversi studiosi ed esperti sostenevano da tempo: oggi il petrolio non è più un arma.

C’è stato un tempo in cui l’oro nero poteva essere utilizzato da una manciata di paesi produttori, quali Arabia Saudita, Iran e Iraq, come uno strumento per fare pressione ai governi di mezzo mondo. Bastava letteralmente “chiudere il rubinetto” della produzione di greggio e il rimbalzo del prezzo avrebbe garantito entro poco tempo vantaggi politici, economici o militari. Il termine “arma petrolifera”, non a caso, rimanda inevitabilmente all’embargo del 1973, con il blocco della produzione da parte dai paesi arabi dell’Opec in risposta guerra dello Yom Kippur che generò la famosa crisi petrolifera.

Da quell’epoca le cose sono drasticamente cambiate e, sebbene diversi paesi abbiano usato o minacciato di usare il petrolio come arma politica anche nella storia recente, oggi la “oil weapon”, o “oil option” come viene spesso definita, non sembra spaventare più come una volta.

Perché il petrolio non è più un’arma?

A concorrere a questo cambiamento epocale, che ha ovviamente anche importanti risvolti anche nel campo della geopolitica, ci sono diversi fattori emersi negli ultimi anni all’interno del mercato petrolifero, specialmente sul lato dell’offerta del greggio.

Il primo tra questi si chiama shale oil ed è ciò che ha permesso di recente agli Stati Uniti di diventare totalmente indipendenti dalle importazioni di petrolio per il loro fabbisogno energetico. Anni di ricerca, esplorazioni, diversi esperimenti falliti, danni ambientali ed enormi investimenti, alla fine hanno dato i loro frutti e oggi l’America è il primo paese al mondo per l’estrazione del petrolio di scisto dalle rocce, potendosi garantire così un buon margine di autosufficienza. Tanto da riportare gli States nella classifica dei maggiori esportatori, dietro ad Arabia Saudita, Russia e Iraq.

A partire dal 2014 lo shale oil ha infatti creato un vero e proprio boom nella produzione domestica degli Stati Uniti (il primo consumatore di petrolio al mondo) e ad oggi circa un terzo della produzione onshore di greggio negli States è costituita da petrolio di scisto. Un successo che ha spinto anche altre potenze, come il Regno Unito, a iniziare perforazioni esplorative e sperimentare le tecniche di “fracking” ovvero il processo per rompere le rocce nel sottosuolo e liberare petrolio e gas di scisto.

Bisogna poi considerare che nel corso degli anni ci sono moltissimi altri Paesi produttori che hanno contribuito ad allargare il lato dell’offerta. Basti pensare che nel 1960, quando è stata fondata l’Organizzazione dei Paesi esportatori di petrolio, gli Stati membri erano solamente cinque, mentre ad oggi sono ben 13 a farne parte.

Più di recente si sono poi aggiunti alla lista anche i paesi che fanno parte dell’Opec Plus, la versione “allargata” del cartello petrolifero che include anche i Paesi produttori non-membri dell’Opec, e di cui la Russia è il principale produttore. L’Opec Plus, come nota l’Ispi, nasce in primis proprio come reazione alla crescita della “produzione non convenzionale” degli Stati Uniti, ottenuta grazie allo shale oil. In questo frangente, la Russia, rappresenta una pedina importantissima all’interno del cartello petrolifero, dato che a partire dagli Novanta ha aumentato enormemente le proprie esportazioni di petrolio ed oggi è seconda solamente all’Arabia Saudita.

Emerge così un quadro decisamente mutato negli equilibri dell’oil market che rende molto più difficile, se non impossibile, per un singolo attore innescare una guerra petrolifera e utilizzare il greggio, o meglio il controllo sul suo prezzo, come un’arma di ricatto.

Per questo, sebbene l’allargamento dell’Opec abbia creato un gigante che controlla oltre il 70% della produzione mondiale, l’arma petrolifera oggi fa molta meno paura che in passato.

Come ha sottolineato Stefano Cingolani in un articolo su Il Foglio a proposito della relativa stabilità del prezzo del petrolio dopo la crisi tra Usa e Iran: “L’oro nero, che dagli anni Settanta abbiamo imparato a considerare una bomba che l’Opec potrebbe innescare a suo piacimento, non si è trasformato in un petardo, ma anno dopo anno sta perdendo il suo potenziale”.

Gli sceicchi e i leader dei paesi arabi hanno certamente ancora un gran potere all’interno del mercato petrolifero, ma, ribadisce Cingolani, “le sorti del mondo non sono più nelle loro mani come dal 1973 in poi, tanto meno nelle mani degli ayatollah”.

Il calo della domanda

A ben vedere, però, la vera novità nel mercato dell’oro nero non è soltanto l’aumento dell’offerta di petrolio, ma anche il sorprendente calo della domanda.

Come stima uno studio della major petrolifera britannica BP, “l’avvento dei veicoli elettrici e le crescenti pressioni per decarbonizzare il settore dei trasporti fanno sì che il petrolio stia affrontando per la prima volta una concorrenza significativa all’interno della sua principale fonte di domanda”.

Secondo lo studio, infatti, saranno proprio le forze combinate del miglioramento dell’efficienza dei veicoli e della pressione dei Governi per ridurre le emissioni di carbonio che probabilmente freneranno la domanda di petrolio dopo oltre 150 anni di crescita quasi ininterrotta.

In questo senso risulta quindi ancora più determinante il crollo della domanda di petrolio che segnala una rottura dal paradigma che ha dominato i mercati petroliferi negli ultimi decenni, ovvero la previsione di un calo o un deficit dell’offerta. “La convinzione era che prima o poi ci sarebbe stata una fornitura limitata di petrolio e che, man mano che il petrolio scarseggiava, il suo prezzo sarebbe aumentato”.

Proprio questa convinzione di base ha avuto un’influenza importante sui mercati petroliferi già dagli anni Settanta. I paesi produttori di petrolio hanno iniziato a razionare la loro produzione nella certezza che, col passare del tempo, il prezzo di greggio sarebbe salito a livelli altissimi.

Così non è stato, e, come sottolinea anche lo studio, nel futuro del mercato petrolifero è già previsto un vero e proprio crollo della domanda tra il 2030 e il 2040.

Quale sarà il ruolo del petrolio nei prossimi anni?

Certamente il petrolio, anche se la transizione “green” del settore dei trasporti dovesse avvenire a tempi record e la domanda dovesse calare bruscamente, manterrebbe comunque un’enorme importanza all’interno della nostra società. I campi di impiego dell’oro nero ricoprono ancora un ampio spettro della produzione industriale e difficilmente potrà essere rimpiazzato da valide alternative.

Ciò che cambia davvero, è però il ruolo del petrolio all’interno del panorama geopolitico e nei delicati equilibri internazionali, e lo dimostra il fatto che non possa più essere utilizzato in maniera credibile come arma di ricatto. Senza questo strumento per fare leva sui Paesi occidentali, molte potenze del Medio Oriente dovranno infatti rivedere le proprie strategie e, molto probabilmente, anche le alleanze.





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