Saudi Aramco, il gigante saudita del petrolio, serve a Mohammed Bin Salman molto più di quanto il principe reggente serve alla sua patria. La compagnia petrolifera più grande al mondo, capace di estrarre 10 milioni di barili di greggio ogni giorno (l’11% dell’offerta mondiale), può far saltare tutte le logiche della Borsa nazionale e internazionale anche solo con l’1,5% del suo capitale. In breve, Aramco è una società mostruosa con un potenziale economico senza eguali, il cui problema più grande può essere solo la sua appartenenza e lo scopo della sua quotazione.
In Arabia la successione al trono non è regolata e il potere è suddiviso per tribù: tra quella che esercita il suo poter sull’esercito, l’altra la sicurezza, e via dicendo. Vien da sé che Aramco non potrà che essere (adesso e per sempre) un prolungamento dello Stato e del concilio delle tribù. L’alterare i rapporti di potere all’interno della macchina dello Stato diventa perciò l’alterare i poteri tribali. Per questo la posizione nazionale e governativa di non portarla in borsa con quote di controllo è la traduzione di una chiusura alla società civile.
L’Arabia è un Petro-Stato e Aramco non è sottoposta a privatizzazione perché va male. La società può essere quotata e così portare ricchezza alle casse statali. Viceversa, non quotandola, Aramco rende lo stesso perché i suoi dividendi finirebbero al Tesoro saudita. Perché allora il bisogno di questa operazione? Aramco sulla piazza potrebbe aiutare il finanziamento della modernizzazione del Paese e in particolare la fuoriuscita dalla dipendenza dalle materie prime energetiche. Pertanto, si arriverebbe alla conclusione di finanziare la più grande fabbrica di petrolio proprio per abbandonare la dipendenza da esso: in altre parole, la quotazione di Aramco è una grandiosa operazione di immagine.
Il progetti di diversificazione, come la privatizzazione delle poste, della sanità, delle ferrovie, dei porti e il turismo profano – ossia non legato al pellegrinaggio verso i luoghi sacri dell’Islam – saranno affidati alla gestione di clan tribali. Clan che a margine di questo macro modernizzazione potranno perlomeno tirare un sospiro di sollievo, in quanto nulla è dato dal caso: la società ha il compito in primis di sanare il debito pubblico saudita, in deficit dal 2014.
Malgrado la notevole liquidità di Saudi Aramco, la società ha acceso un prestito di 12 miliardi di dollari raccolti tutti con titoli a lungo termine. Per diversificare l’economia – e creare nuovi posti di lavoro – Vision 2030 punta su energie rinnovabili, turismo, hi-tech. Anche se i costi al momento sembrano del tutto irrealizzabili: per esempio per cambiar volto alla capitale Riad sono previsti 23 miliardi, per realizzare la città Neom, il polo industriale del futuro, sono stati pianificati 500 miliardi di dollari di investimenti. Ovviamente, in questo scenario i ricavi ottenuti dall’Ipo di Aramco sono necessari, ma forse non sufficienti.
C’è poi la questione internazionale. La compagine tribale, infatti, si è resa conto che l’età dell’oro, quella del petrolio saldamente sopra i 100 dollari al barile, è ai titoli di coda. Ad aggravare questo bilancio sono anche i problemi d’immagine di Bin Salman e degli altri esponenti delle tribù. A cominciare dalla maxi retata anti-corruzione, scattata il 4 novembre 2017 per mano del principe e culminata nell’arresto di 200 fra ministri, businessmen e principi (tra cui i 10 uomini più ricchi del mondo arabo), senza la pubblicazione di prove o accuse formali, simile più ad un colpo di mano per sbarazzarsi del dissenso interno, per finire col misterioso assassinio del giornalista dissidente Jamal Khashoggi, avvenuto nell’ottobre 2018.
Insomma, laddove il benessere dei sudditi passa dalla benevolenza distributiva dei principi e una modernizzazione dipende dalla trasformazione dei sudditi in cittadini, l’obiettivo unico sembra quello di arricchirsi. Come? Non è importante. A scapito di chi? Visto l’andamento del petrolio e il poco velato impegno a cambiare la propria economia disfacendosi dell’usato sicuro (in questo caso Aramco), forse anche meno.