L’avvio del percorso che porterà al ritorno dello Stato in Autostrade per l’Italia è stato celebrato con l’accordo di luglio in cui il governo Conte e la holding Atlantia hanno concordato il graduale passaggio delle quote della famiglia Benetton a soggetti esterni, come Cassa Depositi e Prestiti, che entrerà in una società scorporata dalla holding dei Benetton per acquisire la maggioranza delle quote (51%) e riportare sotto l’ala statale la nuova public company.
Indipendentemente dalle valutazioni sulle strategie di gestione e di politica industriale e infrastrutturale legate al nuovo assetto proprietario delle autostrade, è bene sottolineare che nelle ultime settimane l’entusiasmo governativo per la vittoria sul dossier Atlantia è andato gradualmente scemando. E mentre si attende ancora una possibile controproposta della holding dei Benetton, Conte e i suoi ministri hanno dovuto iniziare a prendere atto del fatto che la risoluzione del dossier è tutto fuorchè definitivamente sigillata.
Cdp sarebbe orientata ad andare avanti con il progetto concordato a inizio luglio, basato sulla combinazione tra un aumento di capitale riservato alla Cassa e a un pool di soci italiani da effettuarsi in un primo momento e la successiva quotazione a Piazza Affari di Aspi, fattispecie che favorirebbe il risparmio in conto capitale ai nuovi soci. Atlantia, invece, si muove su un terreno differente e vuole che sia il mercato a decidere il prezzo giusto, proponendo uno scorporo delle Autostrade dalla controllante che secondo diversi analisti porterebbe il valore del nuovo gruppo a 9 miliardi di euro.
Questa ipotesi potrebbe nei prossimi mesi trovare una serie di appoggi finanziari ed istituzionali di primissimo piano. Per dimostrarlo, basta scorrere l’elenco dei proprietari di quote di Atlantia e di Aspi e quello degli acquirenti di obbligazioni delle due società. Nel primo elenco si segnalano autentici colossi: il gruppo tedesco Allianz, quello francese Edf, quello olandese Dif e il fondo governativo cinese Silk Road insieme detengono l’11,94% di Autostrade. Difficilmente gruppi di questo calibro accetterebbero una riduzione unilaterale delle quote o scelte “giacobine” come quelle proposte dal Movimento Cinque Stelle sui costi dei pedaggi, che andrebbero a impattare sugli utili.
Ma c’è di più. Atlantia ha un legame diretto con la Banca Centrale Europea, che a partire dal 2015 ha acquistato obbligazioni del gruppo nel quadro del quantitative easing riservato ai bond delle società quotate, con una grande accelerazione a inizio 2018, prima della tragedia del Ponte Morandi a Genova. Con il declassamento subito da Moody’s a gennaio Atlantia è divenuta la terza società di alto profilo dopo i giganti del commercio al dettaglio Steinhoff e Dia ad aver emesso grandi quantità di debito societario accumulato dalla Bce per poi essere declassato a spazzatura. Mettere ulteriormente a rischio questo patrimonio obbligazionario, e un parallelo prestito miliardario della Banca europea degli investimenti, con strappi unilaterali sulle Autostrade capaci di far traballare la holding dei Benetton rappresenterebbe un azzardo per il governo, specie considerato il fatto che i giallorossi fanno dell’europeismo un loro pilastro politico.
Sulle autostrade italiane, fermo restando che la permanenza dei Benetton risulterebbe problematica, il punto è dunque trovare un punto di contingenza tra interessi contrapposti. L’esecutivo chiede il graduale ingresso di Cdp, ma non ha un piano per sviluppare le reti; la cassa, a sua volta, non può lavorare come bancomat del governo, dovendo rispondere della gestione di decine di miliardi di euro del risparmio postale e deve remunerare a livelli di mercato il proprio investimento; di conseguenza, Conte non ha potuto fare a meno di concedere il via libera allo sdoganamento degli ordinari meccanismi finanziari, trasformando una questione politica in una dinamica finanziaria. In cui i soci di Atlantia e Aspi sono intervenuti pretendendo, logicamente, la massima remunerazione delle quote in caso di uscita (i Benetton) o la garanzia contro perdite strutturali di capitale (i soci strategici di minoranza). Le istituzioni europee, invece, chiedono continuità operativa: c’è il rischio che un mancato rinnovo delle obblgiazioni Atlantia o una loro destabilizzazione metta duramente alla prova la capacità di tenuta del gruppo.
Si preannuncia, dunque, una partita di lungo periodo. In cui il governo non può affatto dire di esser stato ingannato: la via dell’opzione di mercato non era scontata in partenza, ma una volta intrapresa risulta difficile deviare e, soprattutto, non seguire i passaggi obbligati del gioco finanziario e del coinvolgimento degli stakeholder. Alcuni dei quali, come le istituzioni europee, detengono una grande voce in capitolo perchè essenziali per la tenuta dell’esecutivo: scontentarle ora su Atlantia potrebbe essere problematico.