La Commissione europea di Ursula von der Leyen presenterà le linee guida per il suo Recovery Fund, l’iniziativa di rilancio dell’economia europea dopo la crisi del coronavirus. Molti Paesi hanno già avuto modo di far sentire la loro voce nella proposizione di contenuti o correzioni: dall’asse franco-tedesco ai “falchi” nordici il dibattito è stato ampio, serrato, partecipato.
Grande assente è stata l’Italia, in debito di capitale politico e capace solo ed esclusivamente di correre nelle retrovie, dichiarandosi come nei mesi scorsi favorevole in linea di principio a strumenti di parziale mutualizzazione del debito e a un bilancio europeo più ampio a cui agganciare il Recovery Fund ma non facendo proposte concrete di sviluppo o di rottura.
Giuseppe Conte ha più volte ricordato il legame tra il suo governo e l’aumento del prestigio italiano in Europa; Paolo Gentiloni, commissario europeo agli Affari Economici, ha lodato lo zelo europeista dei giallorossi; la Commissione europea, però, più volte ha sottolineato che da Roma non è mai arrivata una proposta concreta da inserire nelle negoziazioni, al contrario di quanto hanno fatto Paesi come la Francia, la Spagna o la biasimata Olanda.
E dire che a giocare con furbizia e cinismo l’Italia avrebbe potuto sfruttare diverse carte per far valere la propria voce. Partiamo dal dato strutturale: la terza nazione dell’Unione per popolazione e Pil, la seconda manifattura del Vecchio Continente e il Paese crocevia tra Europa e Mediterraneo ha già per costituzione un potere contrattuale da valorizzare e imparare a spendere. Ma c’è di più: le difficoltà legate alla crisi da coronavirus imponevano un’azione più energica, che in realtà si è limitata alla reazione d’orgoglio di Conte e Luigi Di Maio di fronte alla prima, irricevibile proposta sul Mes.
In ultima istanza, Roma avrebbe potuto giocare la più estrema e decisiva delle carte: la minaccia di un crollo dell’Unione Europea e dell’euro in caso di sprofondamento dell’Italia nell’abisso della recessione e del rischio di un default sistemico. Rischio fortunatamente remoto ma che l’Italia avrebbe potuto contrapporre a chi, come i falchi nordici, hanno ribadito a più riprese che erano la leggerezza contabile dei Paesi del Sud Europa e le loro finanze pubbliche a minacciare l’Unione. Nulla di più errato: è oramai assodato che la maggiore minaccia alla stabiltià dell’Unione sia stata negli ultimi anni l’austerità di matrice germanica, cavalcata dall’Olanda e dagli altri Paesi nordici.
Come fa notare Il Sussidiario, “lo shock da Covid-19 è, al tempo stesso, simmetrico (in quanto provocato da una determinante esterna che colpisce tutta l’eurozona) e asimmetrico dato che colpisce alcuni Stati (già fragili) molto più di altri”. Tra questi includiamo l’Italia, travolta dalla pandemia prima del resto d’Europa e destinata a subire in misura maggiore l’impatto della recessione. “Il pericolo che la crisi economica provocata dal Covid-19 metta a rischio l’esistenza stessa dell’euro partendo da una tempesta finanziaria nel Bel Paese” è dunque la leva su cui Roma può giocare, con la dovuta dose di acume politico, per erodere il fronte più radicale dei rigoristi. Paradossalmente, a Berlino sembrano averlo capito prima di noi: la proposta di Angela Merkel ed Emmanuel Macron, con 500 miliardi di sussidi alle economie più in difficoltà, è ciò di più espansivo che si poteva aspettare per togliere terreno ai falchi del rigore.
Lo schema che l’Italia potrebbe seguire è complesso sulla carta ma comprensibilmente semplice: separare breve e medio periodo, massimizzare l’afflusso di risorse per politiche anti-cicliche in vista dell’entrata in vigore del Recovery Fund nel 2021 e sul momento massimizzare la contingenza favorevole sui titoli di Stato, avvertendo che lasciar prevalere le logiche del rigore sui conti (ricorso al Mes incluso) consegnerebbe l’Italia a una fase di vera e propria tempesta finanziaria nel prossimo autunno, quando la recessione si farà più mordente. A mali estremi, ovvero all’ottusità rigorista di Paesi come Olanda, Danimarca, Austria e Svezia, gli estremi rimedi non sono da escludere: purchè inquadrati in ciò che più manca al governo Conte, ovvero una visione strategica.