Mario Draghi è stato chiamato al governo da Sergio Mattarella essenzialmente per risolvere due problematiche: l’emergenza legata alla carenza di dosi di vaccino contro il Covid-19 e alla necessità di dare nuovi stimoli alla campagna di immunizzazione e la sfida rappresentata dal Recovery Fund. Sul primo fronte, la sostituzione del commissario Domenico Arcuri, il via libera a un programma ambizioso sul fronte industriale e il maggiore coinvolgimento delle forze armate sul fronte logistico puntano a imporre un cambio di passo nelle prossime settimane. Sul secondo, il tempo stringe.

Una data va cerchiata in rosso: 30 aprile 2021. Quel giorno sulla scrivania della Commissione von der Leyen deve arrivare il prospetto definitivo del Piano nazionale di ripresa e resilienza, condizione imprescindibile per avviare il percorso ufficiale di coinvolgimento del Paese nei programmi di Next Generation Eu.

Le autorità europee, guidate dal vicepresidente della Commissione Valdis Dombrovskis, hanno più volte censurato, spesso in maniera molto inelegante, la confusionaria bozza presentata il 12 gennaio scorso dal governo Conte II, al termine di una lunga querelle tra l’ex premier e la fronda legata a Italia Viva e Matteo Renzi fondata più sul dibattito su chi dovesse gestire i finanziamenti che sul come doverli indirizzare. Ebbene, senza strappi formali Draghi intende di fatto riscrivere il Recovery Fund e ha già individuato il modus operandi.

In primo luogo, blindare le caselle chiave legate ai progetti strategici.  Sarà uno stretto nucleo di ministri senza appartenenza partitica (principalmente Roberto Cingolani, Vittorio Colao, Enrico Giovannini, Patrizio Bianchi), tecnici ivi nominati per precisa scelta politica, a tessere le fila dei progetti strategici da realizzare, ma il coordinamento strutturale spetterà al Mef di Daniele Franco, fedelissimo del premier. Da non sottovalutare, sul fronte politico, il ruolo del leghista Giancarlo Giorgetti, titolare del Mise, come fondamentale stakeholder.

In secondo luogo, accorciando le linee e focalizzandosi sui grants, gli 80 miliardi di aiuti a fondo perduto e lasciando perdere, nelle intenzioni, i 127 miliardi di euro di prestiti, che rischiavano di scatenare un accapigliamento tra i partiti e un “assalto alla diligenza” in un contesto che vede i prestiti europei facilmente sostituibili dal deficit nazionale a causa delle condizioni favorevoli della politica monetaria.

In terzo luogo, mettendo chiaramente sul terreno le riforme chieste da Bruxelles come condizionalità. Pubblica amministrazione e giustizia appaiono le priorità, e quindi questo espanderà il perimetro dei ministri chiamati a elaborare proposte funzionali allo sviluppo del Pnrr anche a Renato Brunetta e Marta Cartabia.

Contrariamente a quanto apparso in alcune ricostruzioni di stampa nelle scorse giornate, il fatto che Draghi abbia ormai ben definito il nucleo centrale della sua strategia per il Recovery e abbia preferito la via politica dei ministri competenti a nuove “task force” di amministratori per gestire il Pnrr non esclude affatto il coinvolgimento di partiti e camere. Anzi, la calendarizzazione dei lavori che prevede per l’8 marzo la relazione di Franco sul Pnrr riformulato con nuovi obiettivi e nuove strategie e per il 30 marzo un voto parlamentare su una risoluzione riguardante il Recovery italiano lascia pensare che nel frattempo ci sarà spazio per nuove valutazioni a tutto campo tra Camera e Senato. Come ricorda Il Foglio, in particolare la Cartabia non sarebbe particolarmente disposta ad avviare per decreto, come fatto da Alfonso Bonafede, la riforma della giustizia, e come fatto intendere dal presidente della Commissione Bilancio della Camera Stefano Melilli (Pd),c’è la possibilità che dopo l’approvazione definitiva a inizio aprile il Pnrr vada a Bruxelles assieme al Documento di economia e finanza (Def) che rappresenta la prima bozza della manovra.

Vanno chiarite, in due mesi di serrato lavoro, tutte le zone grigie lasciate dal governo Conte II, per ottenere i fondi che, salvo un primo possibile anticipo del 13%, saranno erogati tra 2022 (70%) e 2023 (30%) per progetti che il governo dovrà impegnarsi a concludere entro il 2026. Campi prioritari, come ricordato più volte, ambiente e digitale. “L’allocazione di almeno un quinto dei fondi alla transazione digitale e quella di almeno il 37% del capitale alla transazione ecologica”, ricorda Panorama, sono due dei “quattro punti imprescindibili perché le tranche vengano erogate” assieme al “rispetto delle raccomandazioni fatte al Paese da parte dell’Unione e la garanzia delle crescita occupazionale nazionale”, che saranno vagliate nelle apposite “pagelle” della Commissione. Il governo Conte, ça va sans dire, su questo fronte non ha specificato praticamente nulla: e Draghi, specie se focalizzerà sugli 80 miliardi di grants gli sforzi, dovrà partire costruendo un Pnrr credibile su questi fronti ben precisi. Il tempo stringe e la composita compagine di governo si avvia a quella che sarà la sua prima vera prova di maturità politica.

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