La pausa estiva delle attività parlamentari impedirà, nelle prossime settimane, la calendarizzazione tra Montecitorio e Palazzo Madama delle discussioni e delle procedure necessarie a convertire in legge il decreto approvato dal governo Conte l’11 luglio scorso riguardante l’istituzione del golden power dell’esecutivo sulla sicurezza delle reti di telecomunicazione. Un decreto ritenuto, dagli alleati internazionali dell’Italia, garanzia affinché Roma potesse continuare la sua relazione economico-commerciale con la Cina, suggellata dalla visita di Xi Jinping a Roma nel marzo scorso, in maniera strategicamente sostenibile e avesse l’ultima parola sul futuro sviluppo delle sue reti 5G, sia che esse fossero costruite da Huawei sia che a realizzarle fosse qualsiasi altra compagnia.
Il decreto approvato dal governo Conte, infatti, espande le prerogative del governo come decisore di ultima istanza sulla sicurezza e la titolarità dei diritti di gestione e utilizzo sulle reti di telecomunicazione e contribuisce a una reale definizione di ciò che deve essere definito, dal governo, strategico (in estrema sintesi, come detto dell’analista Alessandro Aresu a Osservatorio Globalizzazione, ciò che riguarda l’alta tecnologia deve esserlo in maniera prioritaria). D’altro canto, offre una garanzia ai timori degli Stati Uniti circa l’infiltrazione cinese attraverso Huawei nei sistemi dati italiani, presidiati da Washington attraverso il cruciale Sicily Hub, senza per questo deprimere la capacità politica di Roma e farle perdere terreno sul 5G cinese, in Europa accettato di fatto anche da Regno Unito e Germania.
Di fronte alla firma di un contratto strategico tra due imprese in campo Tlc, il decreto dà al governo la possibilità di imporrei specifiche prescrizioni o condizioni o di arrivare a un vero e proprio veto, obbligando d’altro canto le imprese a notificare entro dieci giorni i contenuti degli accordi all’esecutivo per permettergli di valutare eventuali rischi alla sicurezza nazionale.
Il Golden power non decolla
Per Huawei l’estensione dei poteri speciali rappresenta “una risposta di emotività legata al rapporto che il governo italiano ha con gli Usa”. “L’accusa neppure troppo velata”, fa notare StartMag, “è di cedimenti ai proposti di Washington di tenere fuori i colossi cinesi dallo sviluppo delle reti per ragioni di sicurezza. Fonti di mercato ribattono però che le critiche cinesi sono forse eccessive”.
La norma riguarda infatti “tutte le imprese extra-europee, comprese le statunitensi, come Cisco. Non a caso il primo banco di prova è stato il progetto di rete 5G di Fastweb con i sudcoreani di Samsung. A loro volta, tuttavia, gli Stati Uniti sembrerebbero indispettiti dallo stop al potenziamento del golden power, nonostante le rassicurazioni della Lega che ha anche messo in piedi un piano per la «sovranità digitale» con l’idea di un cloud nazionale e semplificazioni amministrative per l’installazione di reti ad alta velocità”. Simone Crolla, managing director dell’American Chamber of Commerce (AmCham) in Italia, ha dichiarato a Formiche che lasciar decadere il decreto del luglio scorso rappresenta un passo falso da parte di Roma: “un momento storico in cui gli Stati stanno aumentando i propri strumenti di difesa – su questo gli Usa sono all’avanguardia grazie al Cfius e all’approvazione nel 2018 del Firrma (Foreign Investment Risk Review Modernization Act), l’Unione europea ha istituito il 5 marzo 2019 un regolamento per il vaglio degli investimenti esteri – l’Italia prenderebbe un percorso in controtendenza, privandosi di importanti opportunità d’intervento per tutelarsi e difendere il suo quadro di alleanze internazionali”.
Il principale limite dell’azione del governo, tuttavia, non appare visibile tanto nel contenuto del decreto in sè, che parte da basi ragionevoli e pragmatiche, quanto nelle modalità di legiferazione sul tema della sicurezza e dell’interesse nazionale. I partiti di governo, i loro esponenti e i ministri parlano spesso di questi argomenti, ma come accaduto molto spesso per i governi del recente passato si tratta di reazioni “emotive”, che seguono fatti all’ordine del giorno nelle cronache mediatiche e non puntano ad anticipare scenari e orizzonti strategici.
L’interesse nazionale non si improvvisa
Nel ristretto campo delle telecomunicazioni e della normativa sul Golden power, per quanto riguarda i partiti di governo la Lega è frenata, in tal senso, dalla sua pregiudiziale filo-statunitense, che le impedisce di valutare un progetto strategico che ponga in prima fila non un atlantismo di maniera ma l’effettiva necessità di un controllo nazionale sugli asset strategici, mentre in materia di sicurezza nazionale il Movimento Cinque Stelle paga la scarsa cultura acquisita nei campi della difesa e della definizione dell’interesse nazionale, nonostante la presenza al suo interno di alcune brillanti eccezioni come Angelo Tofalo, ex membro del Copasir e ora Sottosegretario del Ministero della Difesa.
L’interesse nazionale va costruito mediando urgenze e necessità strategiche di lungo periodo. A cosa serviva imporre il Golden power tramite decreto per farlo poi decadere nelle gore morte della pausa estiva del Parlamento? L’urgenza della decretazione si scontra con la necessità di un ragionamento ad ampio raggio che definisca le modalità con cui lo Stato potrà in futuro preservare il controllo e l’indipendenza sul traffico dati, la costruzione delle reti 5G e la sicurezza di cittadini e imprese: il caso europeo dimostra che sul 5G non è necessario, contrariamente a quanto trapelato da oltre Atlantico in primavera, compiere alcuna scelta di campo tra Stati Uniti e Cina, ma che anche un ingresso di Huawei dovrà tenere conto della necessità italiana di attrarre investimenti produttivi e non predatori.