Per tutto il 2018 la Russia è stata il maggior compratore istituzionale di oro sul mercato mondiale. E ha tenuto la posizione anche nel 2019, tanto da aver scalzato l’Arabia Saudita dal quarto posto tra i Paesi detentori delle maggiori riserve in valute forti, metalli preziosi e altri beni-rifugio: 537 miliardi di dollari (che dovrebbero diventare 591 entro il 2021) contro i 527 dei sauditi. Questo vuol dire, tra l’altro, che in un decennio la Russia ha quadruplicato le proprie riserve in oro, che adesso “pesano” per il 19% di tutte le sue riserve. La corsa russa all’acquisto ha ovviamente fatto schizzare alle stelle il prezzo dell’oro, che per la prima volta dal 2013 ha toccato i 1.400 dollari l’oncia. Ma agli occhi della Banca Centrale di Russia, che ovviamente opera d’intesa con il Cremlino, il gioco vale la candela.

L’obiettivo della corsa all’oro, infatti, è tanto economico quanto politico. Anzi, economico perché politico: affrancare il più possibile la Russia dal dominio del dollaro. Non a caso, mentre nel paniere delle riserve russe il peso dell’oro saliva, quello del dollaro calava, passando dal 46% del 2017 al 22% di oggi. È quella che gli economisti hanno definito “dedollarizzazione”, un’operazione tanto complessa quanto indispensabile per un Paese come la Russia che ha rapporti sempre più tesi con la superpotenza americana e, nello stesso tempo, vede i tre quarti del proprio fatturato commerciale annuale (valore complessivo: 600 miliardi di dollari) denominarsi in dollari.

Vladimir Putin esorta spesso ad accelerare la dedollarizzazione. E si può capirlo. La dipendenza dal dollaro per le transazioni internazionali (prime fra tutte, quelle sul mercato del petrolio e delle materie prime) regala alla Casa Bianca un’arma molto potente, che l’amministrazione Trump infatti usa senza risparmio, sia nella forma delle sanzioni sia in quella dei dazi.

Nell’implementare questa strategia, però, il Cremlino deve mantenere un complesso equilibrio rispetto a interlocutori che hanno esigenze assai diverse. Il mondo delle imprese, che non manca di manifestare un certo dissenso rispetto a certe scelte di fondo (ne abbiamo già parlato in queste pagine), sembra renitente ad abbandonare il dollaro. Il perché lo ha spiegato Aleksej Kudrin, ex ministro delle Finanze e attuale presidente della Corte dei Conti: “Il rublo è una valuta poco stabile e per le operazioni internazionali, invece, è necessaria un’unità di misura stabile”. Cambiare valuta, inoltre, crea complicazioni. E a certi livelli le complicazioni sono costi pesanti. Una specie di “tassa” che pochi pagano volentieri.

Senza contare che il sistema finanziario basato sul dollaro è solidamente strutturato da molti decenni e ha innumerevoli ramificazioni. Sfuggirgli è complicato e lo sa bene la Ue, che non è riuscita, in occasione della crisi con l’Iran, a costruire nemmeno un abbozzo di sistema alternativo. A testimonianza di questo, molti citano il caso di Alrosa, il gigante statale russo dei diamanti. L’azienda si è organizzata per accettare i pagamenti in valute diverse dal dollaro, ma in un anno tali operazioni hanno costituito solo lo 0,1% del totale. Nessuna cattiva volontà, quindi, ma l’oggettiva difficoltà a nuotare contro corrente.

L’arco di Putin, però, non è privo di frecce. La più appuntita sta nella situazione internazionale. La strategia di “America First!” perseguita da Donald Trump ha dato la sveglia a una lunga serie di Paesi. Emmanuel Macron, presidente della Francia colpita dai dazi sulle esportazioni di acciaio e alluminio, ha più volte invitato gli imprenditori francesi ed europei a diminuire la dipendenza dal dollaro. L’anno scorso anche Polonia e Ungheria, per la prima volta da molti anni, hanno comprato oro in quantità significative. Insomma, non sarà dedollarizzazione di massa ma in molti Paesi, oggi, ci si chiede se non sia il caso di allentare il rapporto con il biglietto verde.

Inutile fare il caso dell’Iran. Molto meno inutile pensare invece all’India, sesta economia mondiale, che tratta in rubli con la Russia e ha stretto un accordo con gli Emirati Arabi Uniti perché investimenti e commerci tra i due Paesi non coinvolgano una terza valuta; o alla Turchia, che per bocca di Erdogan si è detta disposta a condurre trattative commerciali nelle valute nazionali con Russia, Cina, Ucraina e Iran.

Non è difficile capire che il perno di qualunque iniziativa di dedollarizzazione, però, sta nel rapporto tra Cina e Russia. Non è certo per caso se oggi la Russia detiene, da sola, il 25% di tutte le riserve in yuan. Nel novembre del 2018 Mosca e Pechino fecero capire di essere vicine al lancio di un sistema di pagamenti “dollar free” e, addirittura, all’utilizzo di carte di credito russe in Cina e viceversa. L’accordo fu poi rimandato. E altrettanto è successo tra Cina e India, a testimonianza del fatto che gli interessi nazionali continuano a condizionare i Paesi che vogliono costruire un’alternativa al dollaro.

Resta però un fatto indiscutibile. Anche all’ultimo Forum economico di San Pietroburgo, Putin e Xi Jinping hanno ribadito che arrivare a commerciare nelle valute nazionali è un obiettivo strategico per entrambi i Paesi. E per la prima volta nella storia, proprio quest’anno, la quota del dollaro negli scambi tra Mosca e Pechino è scesa sotto il 50% (45,7%, per la precisione), con un calo drammatico rispetto al 75,1% del 2018.

Sono manovre a cui l’Europa dovrà guardare con attenzione, per almeno due ragioni. La prima è che dei tentativi di depolarizzazione sta beneficiando l’euro, che negli scambi tra Russia e Cina ha oggi una quota del 37,6%, decuplicata anche solo rispetto al 2018. La seconda è che le trattative valutarie con Russia e India servono alla Cina da laboratorio per futuri e analoghi accordi con i Paese toccati dalla nuova Via della Seta. Il mondo insomma cambia, e lo fa velocemente.

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