Curaçao, minuscolo angolo di terra nel mare di fronte alle coste del Venezuela, dal 1954 costituisce, insieme alle altre isole delle Antille Olandesi, un’unità autonoma dipendente dai Paesi Bassi. Un piccolo paradiso che conobbe la sua fortuna nel 1914, quando l’oro nero iniziò a zampillare dal sottosuolo. Il governo olandese si fece promotore della costruzione di una raffineria impiegando l’intera popolazione e attirando immigrati. A metà degli anni Ottanta, la Royal Dutch Shell vendette la raffineria a un consorzio governativo locale che, a sua volta, la affittò alla compagnia petrolifera nazionale venezuelana Pdvsa (Petróleos de Venezuela, S.A).
Un’intera economia che ruota attorno all’I.S.L.A complex
Conosciuto come I.S.L.A complex, il sito industriale è fonte di inquinamento nocivo che conferisce a Curaçao uno dei più alti tassi di emissioni di carbonio pro capite a livello globale. Ma se gli impianti hanno dato a lungo lavoro e benessere all’isola, hanno anche privato i suoi cittadini del diritto alla salute: cancro e tosse cronica sono i demoni che gli abitanti di Curaçao devono combattere da quasi cento anni. I due quartieri a ovest della raffineria, Marchena e Wishi, sono quelli che subiscono maggiormente il peso dell’aria inquinata: qui, nei giorni di vento, le scuole vengono chiuse perché è pericoloso anche solo respirare. A mostrare la virulenza dell’aria dell’isola è il cimitero ebraico Beth Haim, fondato nel 1659, che confina con la raffineria: le 2.500 anime sepolte qui sono state per decenni rappresentate da lastre senza nome e senza volto cancellate dall’inquinamento e dal sale. Gran parte del PIL di Curaçao deriva dai servizi. Turismo, raffinazione del petrolio, finanza offshore, trasporti e comunicazioni sono i pilastri di questa piccola economia strettamente legata al mondo esterno. Curaçao ha risorse naturali limitate, un suolo povero e scarse risorse idriche e i problemi di bilancio complicano la riforma dei sistemi sanitari ed educativi. Sebbene il PIL sia cresciuto solo leggermente negli ultimi dieci anni, gode di un reddito pro capite elevato e di un’infrastruttura ben sviluppata rispetto ad altri paesi della regione. Possiede un porto naturale che può ospitare grandi petroliere, ospita una zona di libero scambio e un bacino di carenaggio. La maggior parte del petrolio per la raffineria viene importato dal Venezuela e la quasi totalità dei prodotti raffinati veniva esportata negli Stati Uniti e in Asia. Almeno fino alle sanzioni imposte dagli Stati Uniti al Venezuela che hanno trascinato l’isola in un pericoloso effetto domino.
La crisi venezuelana trascina con sé Curaçao
Dal 2017, le misure finanziarie punitive imposte dall’amministrazione Trump hanno messo a dura prova le attività petrolifere del Venezuela, poiché agli enti statunitensi è vietato trattare con Pdvsa e Caracas. Nel febbraio di quest’anno Curaçao aveva ricevuto un’esenzione parziale dalle sanzioni statunitensi sulla Pdvsa. La licenza per la raffineria, insieme ad altre due società collegate, avrebbe consentito alla struttura di continuare a fare affari con le società statunitensi fino al 15 gennaio 2020. Il complesso I.S.L.A è stato per lo più inattivo a causa della mancanza di greggio fornito da Pdvsa, ma alcune delle sue unità sono state riavviate nel tentativo di riprendere una parte della sua capacità di lavorazione del greggio e produrre combustibile finito. La produzione di greggio in Venezuela è diminuita in modo significativo: il paese si è trovato nel mezzo della lotta tra il presidente Maduro, reo di aver nominato ufficiali delle forze armate senza esperienza a guidare l’azienda petrolifera, e il presidente ad interim Guaidó. In questo scenario, l’invio di greggio a Curaçao non avrebbe più senso per Caracas, visto che la PDVSA non può vendere prodotti a causa dell’embargo. Per la piccola isola, tuttavia, la raffineria ha massima priorità.
Colpo di scena: un’alternativa a Caracas
Poi, alcuni giorni fa, il colpo di scena. La raffineria statale Refineria di Korsou (RdK) ha annunciato di aver siglato un accordo di vendita con il gruppo Klesch che possiede e gestisce la raffineria di Heide in Germania (con sede a Ginevra e a Londra), noto per l’acquisizione di beni in difficoltà nei settori petrolchimico e metallurgico. Cercando di porre fine a una disputa che metteva l’impianto al centro della guerra tra Stati Uniti e Venezuela legata alle sanzioni contro Maduro, l’accordo prevede la vendita del complesso, compreso il suo terminal di stoccaggio del petrolio, con un lungo contratto di locazione. RdK in settembre aveva avviato colloqui esclusivi con Klesch. La ricerca di un’alternativa è iniziata dopo una disputa tra la società venezuelana e il produttore di petrolio statunitense ConocoPhillips che ha lasciato l’impianto inattivo durante i tentativi di sequestro dei beni. Il contratto di Pdvsa come gestore della raffineria scade alla fine dell’anno, ma la compagnia ha accettato di rimanere fino a quando Klesch non sarà completamente in grado di subentrare. Pdvsa aveva cercato un rinnovo del contratto ma è riuscita a strappare solo una misera proroga. L’accordo metterebbe Klesch a capo del’ oil terminal di Bullenbay, con i suoi 17,75 milioni di barili di capacità di stoccaggio e miscelazione. Bullenbay è il luogo in cui Pdvsa riceveva petrolio “leggero” che miscelava con greggio extra pesante per creare una miscela esportabile. RdK ha dichiarato di voler firmare due accordi ulteriori con Klesch nel corso del prossimo anno.