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Il common sense del primo ventennio di integrazione monetaria europea è ben definito: la grande vincitrice del processo è stata la Germania, unitamente a una ristretta fascia di Paesi del Nord Europa, che ha avuto dall’euro un volano notevole alle sue esportazioni e, dunque, al consolidamento di un modello economico centrato sul suo esclusivo interesse. O, per chiarificare, sull’interesse del suo complesso economico-industriale e finanziario, che come noto ha giocato su due piani. Da un lato incentivando la svalutazione interna, con un aumento del lavoro precario e un incentivo alla crescita delle retribuzioni inferiore a quello alla crescita della produttività. Dall’altro sfruttando il mercantilismo monetario e le misure di austerità come strumento per impedire la nascita di filiere concorrenti a quella tedesca.

L’euro, in tal senso, è stato un alfiere della penetrazione tedesca

La moneta unica, infatti, ha fornito un assist all’industria tedesca risultando una divisa sottoprezzata rispetto al marco tedesco, fattore che ne ha incentivato le esportazioni, ma al tempo stesso sopravvalutata rispetto a monete come la lira che, con le sue periodiche svalutazioni, ha garantito al sistema italiano un utile posizionamento come economia esportatrice di prima grandezza.

La storia insegna che l’adesione a un regime rigido di cambi fissi come quello dell’euro penalizza, nel contesto di un’unione monetaria, le nazioni dotate di una valuta più soggetta a fluttuazioni, premiando quelle stabili e maggiormente valutate. L’Italia, seconda manifattura d’Europa, ha perso sul piano della moneta tanto quanto sul piano delle “regole”, costruite a uso e consumo di una Germania che a più riprese, come insegnano studiosi quali Sergio Cesarattonon ha esitato a farsene beffa laddove conveniente. Come nel caso dello sforamento dei parametri di Maastricht in materia di rapporto tra surplus commerciale e Pil.

A inizio 2019, in occasione del ventennale dell’inizio del processo che avrebbe portato all’entrata in vigore dell’euro, Bloomberg ha analizzato i dividendi prodotti dalla moneta unica per diversi Paesi, presentando per l’Italia un quadro desolante: “Vent’anni di adesione all’euro non hanno portato nulla all’Italia. Legando la sua economia ad alta inflazione all’export tedesco senza adottare misure per aiutare le imprese a competere, l’Italia ha perso una guerra di logoramento”. Tale analisi contraddice il classico mantra, sostenuto a ciclo continuo da diversi commentatori ed economisti nostrani come Carlo Cottarelli, secondo cui le principali problematiche affrontate dall’Italia dopo l’ingresso nell’euro siano state legate alla sua inadeguatezza all’esperimento della moneta comune. Nel solo decennio che ha portato al 1999 l’Italia svalutò la lira rispetto al marco del 34% (dal cambio di 1 marco per 738 lire a quello di 1 a 990). Le due monete seguivano trend diversi e l’armonizzazione dei valori ha prodotto indubbi benefici per il mercato tedesco che, stima Scenari Economici, ha dal 1999 a oggi guadagnato circa un 20% di competitività.

Come ha detto l’economista Philippe Legrain, “l’euro, che è senza dubbio molto più debole di quanto non sarebbe stato il marco, ha ridotto i prezzi delle merci tedesche, impedendo all’ Italia di deprezzare la propria divisa”. Giudizio condiviso da Guido Rossi, economista di Intesa San Paolo, secondo cui “grazie all’euro il marco si è svalutato fino al 40%”.

Molto ha fatto in tal senso anche il quantitative easing della Bce che, nonostante l’indubbio risultato di un’armonizzazione degli spread tra i debiti pubblici, ha ulteriormente ridotto il peso relativo della moneta unica nel contesto globale, fornendo una spinta all’export di Germania e Olanda, a parole tra i Paesi più critici dell’espansione monetaria ma, nei fatti, primi beneficiari. L’ordinamento dell’euro non viene messo in discussione dai suoi vincitori nemmeno nel momento in cui appaiono palesi i contraccolpi interni e, soprattutto, la difficile sostenibilità di economia unicamente dedite all’export. Ma ciò che appare più incomprensibile è vedere come, in cima agli entusiasti dell’attuale status quo, ci siano i governi dei Paesi “vinti”. Con l’Italia capofila.

 

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