L’auto elettrica è già realtà, la sua portata rivoluzionaria decisamente meno. L’ottovolante borsistico di Tesla, la creatura imprenditoriale di Elon Musk, nelle ultime settimane lo testimonia apertamente. L’azienda ha annunciato che il 2020 dovrebbe essere, in maniera pressochè certa, l’anno del primo utile consolidato e a cavallo tra fine gennaio e inizio febbraio ha visto il suo titolo dilatare il valore borsistico sino a 158 miliardi di dollari, prima di conoscere un ribasso del 21% nella giornata del 6 febbraio.
Il motivo, sostanzialmente, è il fatto che il settore dell’auto elettrica stenta ancora a consolidarsi come realtà industriale autonoma. Tesla, sottolinea Affari Italiani, “non ha mai prodotto profitti netti. Ancora nel 2019, lungo l’intero anno, la perdita secca è stata di 862 milioni di dollari. E negli ultimi 6 anni il conto cumulato del rosso di bilancio vale oltre 5,5 miliardi di dollari. La marginalità lorda industriale è in crescita indubbia ma ancora nel 2019 valeva solo il 9% dei ricavi. Un po’ poco per assegnare a Tesla valutazioni da regina del tech”.
La dura realtà parla di un dilemma notevole di matrice industriale e produttiva. Legato alla rendita di posizione della Cina nei settori più importanti per la transizione del settore auto all’elettrico: i materiali cruciali per la realizzazione delle batterie. Pechino, da storica “fabbrica del mondo”, sa che il settore auto è tra i maggiormente dipendenti dalle catene del valore globali. E si adatta per ottenere vantaggi competitivi. In primo luogo, gestendo a livello globale l’attività dei giacimenti importanti per la realizzazione delle batterie per l’auto elettrica, nickel, litio e cobalto, di cui controlla il 90% dell’offerta mondiale, dal Congo al Sud America.
In secondo luogo, concentrando sul territorio nazionale la produzione delle stesse. Al momento la Cina produce tra il 60 e il 70 per cento di tutte le batterie al mondo, ed entro il 2028 gli analisti prevedono che Catl, fondata nel 2011 dal cinese Robert Zeng, diventi l’azienda dominante nel settore a livello globale.
Infine, Pechino impone ai produttori che desiderano operare sul suo territorio di utilizzare batterie elettriche prodotte da attori economici convenzionati tra cui, ad esempio, non rientra la leader mondiale del settore delle batterie elettriche, la sudcoreana Lg Chem. Tutti i più grandi produttori di auto elettriche, da Volkswagen a Toyota, devono quindi fare di necessità virtù.
La questione dirimente, in ogni caso, è proprio quella sulle materie prime. Esse sono la sovrastruttura su cui si inseriscono le altre politiche del Dragone in materia di auto elettriche. Un misto di approfondita esplorazione geografica, coriacea proiezione geopolitica e pianificata strategia industriale ha creato le condizioni per la superiorità cinese. In particolare, sul suolo cinese è presente pochissimo cobalto (la percentuale estratta si aggira intorno all’1% del totale mondiale), ma ciò non impedisce a Pechino di contribuire con l’80% al rifornimento del mercato mondiale attraverso la lavorazione dei minerali provenienti dai giacimenti africani. Al contempo, rileva StartMag, “nickel estratto e nickel lavorato sono quasi equivalenti, intorno al 35%, mentre viene estratta sul territorio una percentuale di litio che si aggira intorno al 15% e ne viene lavorata circa il 50%”.
Il giacimento congolese di Tenke Fungurume rappresenta plasticamente le ambizioni cinesi nel settore della componentistica essenziale per le auto elettriche. La compagnia China Molybdenum, che controlla il maxi-deposito di rame e cobalto di Tenke Fungurume, compete e fa sponda al tempo stesso con Glencore, attiva nella regione del Katanga, per indirizzare verso il territorio metropolitano cinese una risorsa sempre più strategica. Il litio, invece, è un metallo molto più comune sulla crosta terrestre, ma questo non impedisce una partita a tutto campo che sta avendo ripercussioni sulla strategia politica di Pechino in Paesi del Sudamerica come Bolivia e Cile.
Alberto Forchielli, imprenditore e manager che lavora tra Asia e Stati Uniti, ha twittato che sotto queste condizioni i tradizionali egemoni del mercato automobilistico dovranno battere in ritirata: “la gara per la supply chain delle batterie per i veicoli elettrici è persa, la Cina controlla la produzione di litio, cobalto e nickel nonché quella delle batterie stesse, con la fine del motore scoppio finisce il dominio occidentale del settore auto”. In effetti il futuro per il settore è destinato a proporre due strade alternative, che condizioneranno l’operato di chi dovrà, inevitabilmente, confrontarsi con la leadership cinese. Da un lato, le auto ibride, sia nella versione “parallela” utilizzata da Toyota che in quella plug-in hybrid sperimentata da Mitsubishi, che associa al motore elettrico anche una serie di batterie ricaricabili. Dall’altro, il full electric di Tesla e Bmw.
I produttori statunitensi, europei e giapponesi dovranno in ogni caso capire come risolvere il problema di fondo di un mercato delle batterie egemonizzato da Pechino. Nessuna scelta definitiva potrà essere realizzata finché non si disintermedierà il vantaggio competitivo cinese, o finché la Cina stessa non lo metterà al servizio di un’azienda nazionale dell’auto elettrica. “Ibm”, nota il Corriere Economia, “sta lavorando su una batteria che farebbe a meno del Cobalto. Verrebbe sostituito da materie prime ricavate dall’acqua di mare. Ecco perché i grandi produttori di auto ancora frenano. Annunciano maxi-investimenti, come Psa e Volkswagen, ma lanciano sul mercato modelli ancora particolarmente costosi, proprio perché è carente l’offerta di batterie sul mercato”. Il caso di Tesla dimostra come questa precarietà sia difficilmente tollerata da chi cerca certezze in borsa, rendimenti sicuri nel settore e, soprattutto, rafforzamenti concreti di settori in ascesa.