A gennaio l’euro compie 19 anni dalla sua entrata in vigore e 22 dalla sua istituzione come unità di conto. Il problema della moneta, in questo anno pandemico, è stato temporaneamente accantonato dal dibattito pubblico dalla crescente necessità, legata all’emergenza coronavirus, di stimolare le economie dell’Unione derogando a quei trattati che, in combinato disposto con l’euro, contribuiscono alla governance del Vecchio continente.

Anni di problematiche economiche, di depauperamento commerciale e industriale del nostro Paese, di ritardi competitivi nei confronti di Paesi come Francia e Germania hanno aperto un forte dubbio: forse, così come è stato strutturato, l’euro non è stato proposto come una moneta funzionale all’interesse nazionale italiano. Per molti anni le critiche alle asimmetrie economiche della moneta unica sono giunte, con voce autorevole, soprattutto dagli Stati Uniti: pensiamo alle puntualizzazioni del Nobel Joseph Stiglitz o all’autorevole pubblicazione di Ashoka Mody, Eurotragedy, che Castelvecchi ha tradotto in italiano. Ma negli anni anche in Italia una critica alle problematiche dell’euro si è consolidata.

Nel mondo italiano, ad esempio, autorevoli economisti (Vladimiro Giacchè, ad esempio), filosofi (Andrea Zhok) e politologi (Carlo Galli) hanno da tempo avviato una forte critica da sinistra della moneta unica e delle regole europee in conflitto con la sovranità popolare italiana. A destra, Alberto Bagnai con la sua associazione A/Simmetrie è sbarcato nel 2018 in Parlamento nelle file della Lega. Tra i critici del costrutto europeo, in seconda fila, si segnalano anche battitori liberi nel Parlamento come il deputato Stefano Fassina e il senatore Gianluigi Paragone. A lungo la parte più graniticamente pro-euro del mondo politico italiano è stata la sinistra moderata e progressista, che fa riferimento al Partito democratico e alle aree politiche ad esse affini.

Fa dunque estremamente scalpore leggere quanto riportato in anticipo dal quotidiano La Verità circa una ricerca della Fondazione Bruno Buozzi, circolo culturale indipendente assimilabile all’area della sinistra moderata che prende il nome da un martire della Resistenza, sugli effetti dell’euro sull’economia italiana. Nella ricerca, in particolar modo, si punta il dito verso l’ingenuità dei decisori politici dei governi di centro-sinistra che, a fine anni Novanta, negoziarono un’eccessiva svalutazione della lira nei confronti dell’unità di conto europea (Ecu) che avrebbe fissato i cambi nel triennio precedente la nascita dell’euro nel 2002. La lira fu ritenuta una valuta politicamente avvantaggiata dal fatto che più volte Roma avesse fatto ricorso alle “svalutazioni competitive” e trattata in maniera paragonabile al marco perché Paesi come la Germania temevano che l’Italia potesse, anche nel contesto euro, ricorrervi per ampliare la sua quota di commercio estero sul Pil (che negli anni Novanta non superava il 25%) a scapito di Berlino.

Quel che è successo, semmai, è l’opposto. La Germania ha beneficiato di un euro svalutato relativamente al suo potenziale competitivo, l’Italia ha pagato una moneta del 20-25% sopravvalutata rispetto al reale potenziale della lira e la costruzione di regole europee funzionali al mercantilismo di Berlino e alla svalutazione interna del fattore lavoro, cristallizzate dalla moneta unica, hanno portato Berlino a risultare vincitrice della competizione comunitaria. Secondo l’ex ministro democristiano Paolo Cirino Pomicino “era giusto entrare nell’euro, ma il cambio” di un euro per 1936,27 lire “era sbagliato”, eccessivo.

“La conseguenza dalla nascita dell’euro” e dell’incapacità politica italiana di competere a armi pari con i Paesi de Nord, secondo la fondazione, è stata una distruzione notevole di potenziale produttivo: “Milioni di contribuenti italiani, specie a reddito fisso, sono risultati vittime di una amputazione del reddito, con percentuali non certo irrilevanti, iniziata a partire dal 2002 e tuttora operante”. La pandemia, in questo contesto, rischia di esacerbare tensioni già pre-esistenti e di condurre a un duplice attacco a tenaglia sulla tenuta del sistema Paese. Da un lato un tracollo produttivo, dall’altro un pericoloso innalzamento del rapporto debito-Pil che, per quanto salvaguardato dai piani d’acquisto della Bce, nei prossimi anni nel caso tornasse il patto di stabilità con le famose “regole” di bilancio potrebbe, nel cardine della moneta unica, condurre a una nuova imposizione di misure lacrime e sangue all’Italia. In proporzione al Pil la previsione per il 2020 è un debito pubblico che potrebbe superare il 160%. In termini assoluti si tratta di oltre 190 miliardi in più rispetto allo scorso anno, e tutto questo senza che il governo giallorosso abbia saputo mettere in campo un piano considerevole di investimenti pubblici volti a ripianare la crisi del Paese.

Nel quadro delineato dall’euro, ogni fuoriuscita dalla logica della deflazione interna, del taglio alla spesa pubblica e del contenimento sistematico del debito è difficile da pensare con i rapporti di forza favorevoli ai Paesi del Nord Europa, “trincea” del rigore, al netto di scostamenti tattici della Germania. Aggiungere a questo debito gli oltre 70 miliardi di prestiti del Recovery Fund rappresenta per l’Italia un duplice rischio: da un lato, la firma delle condizionalità che la legge Ue richiede per questo nuovo fondo; dall’altro un aumento della massa di debito contro cui, tra un anno o due, la Commissione potrebbe tornare alla carica. Non a caso lo stesso Commissario italiano Paolo Gentiloni si è comportato verso la manovra del suo Paese come un falco nordico, parlando di sostenibilità delle finanze pubbliche e di regole europee anche nell’anno dei 60mila morti di Covid e del -10% di Pil. La grande problematica segnalata dalla fondazione Buozzi si inserisce in un contesto generale sfavorevole al nostro Paese: l’Europa, così come è, è un organismo che mira ad auto-perpetrarsi senza riflettere sui suoi problemi interni. E applicando le sue logiche in modo meccanico cagiona un danno a tutti i Paesi più fragili dell’Unione, che a partire dall’introduzione dell’euro si sono allontanati dal motore produttivo del continente.