È passata una manciata di giorni dal debutto di Aramco in borsa, la grande manovra del colosso petrolifero saudita, che aveva dato il via alle sottoscrizioni della più grande quotazione in borsa di sempre. Un’operazione storica lanciata dal principe ereditario Mohammed bin Salman per diversificare l’economia del Paese saudita, portarlo fuori dalla monocultura del greggio e raccogliere nuovi capitali da reinvestire. Qualcosa, però, è andato storto.
Un’operazione ridimensionata
Aramco sembra non convincere gli investitori stranieri tanto da scegliere di battere in ritirata e tornare a guardare nel proprio cortile di casa. Al momento, infatti, Aramco pare voler fare affidamento prevalentemente sui ricchi sauditi, quasi costretti a investire, con il placet delle banche saudite che stanno allentando le normative sui prestiti per consentire ai locali di acquistare più azioni. L’Ipo, una volta promossa come il più forte segnale di cambiamento economico in Arabia Saudita, sta cominciando a sembrare più un prelievo sull’economia-Paese mentre gli investitori sauditi, grandi e piccoli, prendono il posto di quelli stranieri. Si potrebbe ancora trattare della più grande Ipo del mondo, valutando la società a 1,6 trilioni di dollari a 1,7 trilioni di dollari, ben al di sopra di gruppi blasonati con sede legale in California: si tratterebbe comunque di un risultato “modesto” rispetto al valore che il principe ereditario sperava di raccogliere. Di fronte ad un così scarso appeal internazionale, Aramco ha deciso all’ultimo minuto di non optare per un ingresso negli Stati Uniti, in Canada e in Giappone, tre mercati tradizionalmente visti come irrinunciabili per una qualsiasi quotazione in borsa. Negli Usa Aramco rinuncia anche all’opzione prevista dalla norma 144A del Securities Act: le obbligazioni o i titoli emessi ai sensi della norma 144A sono titoli di debito offerti solo a investitori statunitensi. Si tratta di uno dei modi più efficaci e veloci per raccogliere capitali al di fuori dello spazio dell’offerta pubblica iniziale. E’ utilizzata per raccogliere centinaia di milioni o anche miliardi di dollari in un’unica offerta. Le grandi aziende emettono 144A di debito, invece di emettere azioni o vendere capitale aggiuntivo. In effetti, il 99% di tutte le offerte 144A sono di debito. La 144A è una delle norme più popolari utilizzate in tutto il mondo per raccogliere capitali: venne adottata ai sensi del US Securities Act del 1933 e fornisce esenzione dalla registrazione di titoli per acquirenti istituzionali qualificati, ovvero investitori istituzionali o investitori accreditati con un patrimonio di almeno 100 milioni di dollari in beni patrimoniali.
È notizia dello scorso lunedì, inoltre, la cancellazione di tutti gli eventi di presentazione del piano Aramco nelle principali città europee: subito dopo aver definito una fascia di prezzo inferiore alle attese (al massimo 1.700 miliardi di dollari invece dei 2mila annunciati in precedenza), i sauditi hanno cancellato quasi tutti gli appuntamenti del roadshow, che sarebbe dovuto partire lunedì 18. Prossima mossa: ridimensionare l’operazione ad un mini tour promozionale tra i mercati interni e nei Paesi alleati del Golfo Persico: Emirati arabi, Kuwait, Oman, Bahrein.
I rischi
Si tratta quindi di un piano rimodulato che tenta di fare leva sull’influenza del principe Mohammed in patria: molte ricche famiglie saudite ora diventeranno investitori chiave di Aramco. Il principe controlla anche il settore bancario locale, che presterà miliardi di dollari agli investitori al dettaglio per acquistare azioni: un ridimensionamento che punta a non rischiare troppo Oltreoceano e fare affidamento su pochi fedelissimi miliardari locali. La combinazione di una valutazione più bassa e una partecipazione più piccola significa che sono giù sicuri i fondi sauditi per acquistare le azioni – e forse garantire un ragionevole post-Ipo – ma la vendita sarà molto lontana dall’evento globale strillato nel 2016. Lo si percepisce da un dettaglio apparentemente banale: la società saudita presenta ancora un prospetto esclusivamente in lingua araba ed è ancora assente una traduzione in inglese. Sarà un caso?
Ma fallita l’internazionalizzazione finanziaria, i rischi per gli investitori saranno solo sauditi? Affatto. Un’operazione così gigantesca può avere corollari ovunque. Nel caso in questione, si annunciano ripercussioni sul portafoglio di molti investitori nel mondo: l’impatto più immediato sarà sulla Borsa saudita, che rischia di vacillare sotto il peso di un’Ipo da almeno 24 miliardi di dollari, generando sofferenza di altri titoli. Ma veniamo all’Europa: il pericolo è costituito dai cosiddetti Etf. Etf è l’acronimo di Exchange Traded Fund, un termine con il quale si identifica una particolare tipologia di fondo d’investimento negoziato in Borsa come un’azione e che ha come unico obiettivo d’investimento quello di replicare l’indice al quale si riferisce attraverso una gestione totalmente passiva. Da qualche mese la Borsa saudita (Tadawul) è entrata nei maggiori indici azionari globali come mercato emergente e sono stati quotati Etf che ricalcano l’andamento dei principali titoli sauditi (persino in quel di Piazza Affari!).
L’accordo è anche pieno di rischi politici, in quanto il governo saudita – che fa affidamento su Aramco per la maggior parte dei suoi finanziamenti – continuerà a controllare la società. La reputazione del principe Mohammed è stata già offuscata dall’omicidio, avvenuto in torbide circostanze, del giornalista saudita Jamal Khashoggi l’anno scorso. Inoltre, molti dei miliardari del paese (ministri, businessmen e principi tra cui i 10 uomini più ricchi del mondo arabo), alcuni dei quali protagonisti del blitz anticorruzione all’Hotel Ritz-Carlton di Riyadh nel 2017, sono probabilmente anche gli stessi grandi investitori protagonisti di questa operazione. Vision 2030, il grande progetto che dovrebbe traghettare l’Arabia verso una nuova era è ormai una sfida personale per il delfino di Riad: per ammodernare l’economia il progetto faraonico punta su energie rinnovabili, turismo, tecnologia attraverso investimenti da capogiro, fra questi il restyling della capitale. Perché tutto questo sia possibile i ricavi ottenuti dall’Ipo di Aramco sono necessari. Ormai, dunque, il piano Aramco è una questione d’onore.