L’epidemia del nuovo coronavirus è diventata una minaccia globale a 360 gradi. Certo, al primo posto ci sono i migliaia di contagiati, i casi sospetti, i centinaia di morti e tutti i rischi collegati alla diffusione del 2019-n-Cov nei cinque continenti. Ma dietro alle preoccupazioni sanitarie troviamo gli altrettanto gravi timori per un contraccolpo economico. In Cina sicuramente, ma anche nel resto del mondo.

L’ambasciatore cinese alle Nazioni Unite, Zhang Jun, ha ammesso che la fase nella lotta contro il coronavirus è ancora “molto critica” ma che l’epidemia è ancora principalmente confinata in Cina. Proprio per questo il signor Zhang, pur comprendendo l’apprensione globale, ritiene che non via sia motivo “di adottare misure che interferiscono inutilmente con i viaggi e gli scambi internazionali”. Probabilmente è un modo velato per rassicurare le aziende straniere che fanno affari oltre la Muraglia.

Molte multinazionali, spaventate dallo scenario apocalittico, stanno infatti alzando bandiera bianca: hanno sospeso momentaneamente le loro attività in territorio cinese o chiuso una buona parte dei propri punti vendita. È il caso, solo per citare qualche nome, di Toyota, Ikea, Starbucks, McDonald’s (chiusi i fast food di Wuhan e dintorni), Ikea, Walmart, H&M e perfino del parco di divertimenti della Disney, uno dei fiori all’occhiello di Shanghai. Senza poi considerare la sospensione dei voli da e per la Cina da parte di numerose compagnie aeree.

Soldi bruciati

A proposito di Shanghai, vale la pena approfondire gli effetti del coronavirus su uno dei principali poli finanziari della Cina. Lo Shanghai Disney Resort è stato inaugurato appena quattro anni fa ed è tuttora considerato uno dei lunapark più grandi del mondo.

Il parco ha richiesto un investimento pari a 5 miliardi di dollari e, va da sé, per il governo cinese rappresentava un bancomat perfetto per attirare turisti stranieri e accumulare valuta estera; un fiume di denaro alimentato dai quasi 100mila visitatori quotidiani adesso improvvisamente interrotto.

La mente del Partito Comunista cinese (Pcc) corre al 2002-2003, quando l’epidemia di Sars fece perdere alla Cina ben 25 miliardi di dollari di prodotto interno lordo. Quelli erano tuttavia altri tempi, la Cina non era ancora un gigante e non influiva sulle economie estere come invece fa regolarmente da almeno una decina di anni. Tutto questo per dire che l’epidemia del 2019-n-Cov, che in Cina, in un mese o poco più, ha superato per numero di contagiati quella della Sars, rischia di fare danni ancora più grandi. Ecco perché la decisione presa da Xi Jinping di isolare il Paese, bloccando il motore economico, deve far riflettere sulla reale entità dell’emergenza.

I danni al settore agroalimentare

Bloomberg ha analizzato i danni provocati dal coronavirus sul settore agroalimentare cinese. La quarantena a cui è stata sottoposta la provincia dello Hubei potrebbe presto rivelarsi un colpo basso per l’intero settore agroalimentare nazionale (e non solo).

Stando alle stime diffuse dall’associazione avicola locale, ci sono 300 milioni di polli che rischiano di morire di inedia. A causa dei trasporti interrotti la produzione di mangimi per animali e le varie forniture sono letteralmente paralizzate. Il dipartimento agricolo provinciale è sicuro: le scorte finiranno entro la settimana.

A quel punto sarà il caos, visto che lo Hubei consuma 1800 tonnellate di mais e 1200 tonnellate di soia al giorno come mangime. Da qui al prossimo mese il deficit arriverà a toccare quota 600mila tonnellate. Al momento ci sono ben 14 province e città che hanno sospeso le attività fino alla seconda settimana di febbraio. Calcolatrice alla mano, l’area congelata rappresenta il 69% del pil cinese nonché il 78% dell’export cinese nel 2019.

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