La vulgata più diffusa circa l’interventismo mediorientale degli Stati Uniti collega l’attivismo di Washington in maniera unilaterale a una risorsa ben precisa: il petrolio. Anche in film hollywoodiani come Vice – L’uomo nell’ombrala pellicola dedicata all’ex vice presidente Dick Cheney, si reitera, in questo caso parlando della guerra all’Iraq del 2003, questa relazione biunivoca. La realtà è molto più complessa.

Che il petrolio sia alla base dell’interesse statunitense per il Medio Oriente è certamente vero. Dall’incontro tra Franklin Delano Roosevelt e Abulaziz Ibn Saud, sovrano dell’Arabia saudita, a bordo della Uss Quincy nel 1945 Washington ha presidiato con interesse sempre maggiore le rotte mediorientali del greggio, che però non è rimasta l’esclusiva preoccupazione strategica della superpotenza.

La dipendenza energetica degli States dalle importazioni dall’estero è oggi molto minore rispetto al passato. Dopo il boom dello shale oil gli Usa sono oggi il primo produttore al mondo, con 15 milioni di barili al giorno, tre in più dell’Arabia Saudita. Sono lontani i tempi dello shock petrolifero del 1973-1974, anni in cui le importazioni americane ammontavano a 6 milioni di barili al giorno, o del 2005, subito dopo l’invasione dell’Iraq, quando la dipendenza energetica era al 60% del fabbisogno. L’amministrazione Trump persegue come dottrina l’energy dominance: aumentare tanto la capacità produttiva quanto il potenziale statunitense di esportazione tanto nel mercato petrolifero quanto in quello del gas naturale.

Ciononostante, il Medio Oriente non esce dal mirino di Washington, come la recente escalation con l’Iran insegna. E le ragioni sono essenzialmente di natura strategica: la dottrina geopolitica di Washington si fonda sul controllo globale dei punti più importanti per i transiti di merci negli oceani e nei teatri d’azione mondiali e su un sostanziale divide et impera volto a evitare l’insorgere di egemoni locali, principalmente terrestri.

Gli Stati Uniti possono non dipendere più dalle importazioni petrolifere ma, fa notare il Corriere Economia, “il Medio Oriente resta cruciale: dal collo di bottiglia di Hormuz transita ogni giorno un quinto del petrolio mondiale (21 milioni di barili al giorno), un terzo di quello commerciato via nave. Solo che, rispetto al passato, si dirige principalmente verso l’Asia. Tre milioni di barili al giorno verso la Cina, poco meno in direzione rispettivamente di India, Giappone, Corea del Sud, e poi Singapore e gli altri”. Il presidio degli stretti rimane una necessità primaria, specie al fine di vegliare sull’avventurismo delle “Vie della Seta” cinesi.

In campo di strategia geopolitica, poi, gli Stati Uniti vogliono impedire che un attore di taglia regionale, in questo caso l’Iran, acquisisca una proiezione tale da divenire attore determinante nell’area e puntellare la sicurezza del suo “gendarme” nell’area, Israele. Sono ragioni strategiche simili a quelle che nel 2003 portarono al rovesciamento di Saddam Hussein e che secondo i calcoli di Washington avrebbero dovuto giustificare un conflitto in cui, sul lungo periodo, gli Stati Uniti furono strategicamente sconfitti per logoramento.

Leggere la sfida tra Stati Uniti e Iran come un conflitto dettato dall’interessamento statunitense per il petrolio di Teheran è dunque riduttivo o fuorviante: la conflittualità esisterebbe anche se l’Iran non detenesse una sola goccia di oro nero. Agli Usa il petrolio mediorientale interessa come determinante dei prezzi sui mercati globali, non per forme di controllo diretto. Queste sembrano giustificare, piuttosto, le manovre americane in Venezuela, per la particolare natura dei pesanti greggi della Repubblica bolivariana, facilmente integrabili con la filiera di raffinazione statunitense e strategicamente importanti per Washington dopo decenni in cui Caracas, anche nella fase di più acuta rivalità, è rimasta tra le principali fonti d’importazione. Ma in Medio Oriente, come sempre, la geopolitica predomina sull’economia. Contribuendo a infuocare questa turbolenta area di mondo.

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