Il rapporto del Fondo monetario internazionale (Fmi) è atteso come una pagella, che promuove o boccia i paesi di tutto il mondo, a partire dal loro operato in campo economico e finanziario, e che presenta raccomandazioni, in vista dei pericoli identificati per la stabilità e lo sviluppo. Nella sua governance, però, occupa una posizione prevalente la visione politica di Washington, che funge da ago della bilancia nelle negoziazioni di prestiti e restituzioni e, talvolta, pare influenzare gli esiti delle valutazioni con scadenza annuale. Questa situazione è particolarmente delicata per l’America Latina, a causa di una serie di ragioni, dalla dipendenza critica dagli Stati Uniti per le esportazioni di materie prime, allo stretto vincolo con il dollaro, che la rendono ostaggio di pressioni e ingerenze.

Con relazione all’ultimo punto, infatti, l’adattamento ai cambi della strategia monetaria della Federal Reserve, che rappresentano sismi finanziari a livello locale, è un cappio al collo per i sistemi latinoamericani, a prescindere da dimensioni e solidità. Durante la pandemia, il costo del denaro, negli Stati Uniti, era stato congelato per stimolare l’economia; oggi, con l’obiettivo di arrestare l’inflazione del 7 per cento, la più alta dal 1982, è stato annunciato un aumento dei tassi di interesse. L’affanno per prevenire ingenti fuoriuscite di capitale in dollari, e conservare il potere acquisitivo dei contribuenti, ha costretto le banche centrali di Brasile, Messico, Cile e Colombia, ad aumentare, in breve tempo, i tassi rispettivamente al 9.25 per cento (il rialzo maggiore, escludendo l’Argentina), al 6.0, (50 punti base),  al 5.5 (150 punti base) e al 3.75 (75 punti base). Questa reazione a catena è stata necessaria non solo per evitare fluttuazioni brusche e negative nel tipo di cambio e il deprezzamento della moneta, ma anche per vigilare sulla percezione e qualificazione del rischio. Attuare con prontezza equivale a salvaguardare mercato dei buoni del tesoro che, altrimenti, perderebbe competitività.

Agli Usa piace il “modello Colombia”

Nel rapporto presentato a fine gennaio, il Fondo ha  posto in risalto la Colombia per la crescita registrata nel 2021, che si è aggirata intorno al 10 per cento, ed è stata definita costante e affidabile. Pur non fornendo dati concreti per il futuro prossimo, si afferma che questa resilienza è destinata a perdurare, in contrasto con la situazione complessiva regionale, per cui l’aspettativa nel 2022 è stata, invece, ridotta al 2.4 per cento. Il premier, Iván Duque, al Foro di Davos, ha reso pubblico che, secondo stime interne, il paese avrebbe superato, le grande economie concorrenti – Brasile, Cile e Messico – di un 9.7 per cento. Tuttavia, la Colombia mantiene un’alta disuguaglianza sociale, e violenza severa contro attivisti per i diritti umani e rappresentanti di comunitĂ  indigene.  Il processo di pace è rimasto incompiuto, con un tasso preoccupante di assassinati di ex combattenti passati alla vita civile, e sacche di conflitto per la presenza di gruppi armati sul territorio. L’aumento dell’indice dei prezzi al consumo e l’inflazione, esplosa al di sopra del 5.5 per cento, essendo la piĂą elevata negli scorsi cinque anni, hanno diminuito la capacitĂ  di acquisto delle classi meno abbienti. La pandemia, inoltre, ha ingrossato il numero degli indigenti. Dati ufficiali dell’istituto nazionale di statistica, che risalgono ad aprile del 2021, indicano che, nel 2020, la povertĂ  estrema ha superato il 15 per cento e la povertĂ  è arrivata al 42.5 per cento, con un incremento di 5 e 6.8 punti, rispetto al 2019.

Il Fondo sembra premiare un alleato determinante per l’affermazione del modello che si vuole impiantare in America Latina, e per la contrapposizione all’avanzata di governi di ispirazione progressista, in alcuni casi con sfaccettature in chiave anti capitalista o anti americana. In un anno elettorale, in cui Duque soffre di un calo di popolarità, si tratta di un riconoscimento che torna a dare fiato all’esecutivo. In questo contesto, una grande importanza è ricoperta dal ruolo giocato dalla Colombia nel contrasto politico attivo al Venezuela di Nicolás Maduro.

Il ribelle che irrita Fmi (e Stati Uniti)

Lo stesso documento boccia El Salvador per aver approvato il bitcoin come valuta di corso legale e invia un messaggio contundente affinché tale decisione venga ritrattata. Stando al Fondo, comporterebbe un azzardo sul piano nazionale. Per Nayib Bukele, al contrario, è una delle chiavi per attrarre fondi stranieri. Il presidente salvadoregno si è impegnato a lanciare il paese come il laboratorio mondiale della criptomoneta e intende convertirlo nella “Singapore del Centroamerica”, in ottemperanza alle promesse elettorali per l’ampliamento e la diversificazione di una piccola economia, minata dalla criminalità organizzata.

L’avvento della moneta virtuale, senza dubbio, solleva questioni macroeconomiche, finanziarie e legali, che richiedono un analisi attento, e la determinazione di un quadro rigoroso di regolamentazione. Ad ogni modo, la sua adozione scaturisce preoccupazioni differenti per gli Stati Uniti. In primis, permette a stati con forte svalutazione la possibilità di proteggere i propri capitali. Un’importante cooperazione bilaterale, ad esempio, è stata avviata con la Turchia, spina nel fianco della Nato, dove con la lira in caduta, si è generata una febbre da investimenti. In secondo luogo, sostituisce il dollaro come misura di transazione e divisa rifugio, iniziando una tendenza negativa per Washington, che si somma a sforzi, simili e diversi, promossi da Venezuela e Cina, nella regione e nel mondo. Infine, si trova al centro di un progetto, svincolato dagli Stati Uniti, per la produzione di energia rinnovabile, a basso costo e zero emissioni, proveniente dai vulcani de El Salvador.

D’altra parte, l’intervenzionismo in materia energetica si avvale di qualsivoglia mezzo. Basti pensare all’opposizione statunitense alla riforma che, in Messico, pretende favorire le imprese statali, aggiudicando il 54 per cento del reparto alla commissione federale di elettricità. L’esclusione del settore privato penalizza la penetrazione di Washington, contraendo la quota occupata di 44 mila milioni di dollari. La disputa viene mascherata da argomentazioni ambientali, in quanto le società americane si concentrano in energia pulita, mentre il Messico ha una scarsa performance nell’attuazione degli Accordi di Parigi sull’inquinamento da carbonio. Questa è, in realtà, una battaglia intorno a litio e rame, minerali strategici per le tecnologie elettriche, sostitutivi dei combustibili fossili, che lo stato vuole porre sotto stretto controllo. Conserva vigenza il detto popolare in America Latina “troppo vicini agli Stati Uniti, troppo lontani da Dio”.

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