All’inizio del mese di ottobre, è venuta in essere un’operazione, da parte del Tesoro italiano, molto importante, ma soprattutto emblematica delle peculiarità sistemiche in cui – al giorno d’oggi – agisce l’economia italiana, e coloro che la coordinano. Infatti, il ministero dell’Economia e delle Finanze ha emesso titoli di Stato in dollari americani, andando a stuzzicare l’interesse degli investitori d’oltreoceano. Nove anni dopo l’ultima volta. E, peraltro, ottenendo un successo non indifferente.

Questa manovra è stata annunciata direttamente sul sito del Mef, attraverso la comunicazione del lancio del “Programma Global Bond“: “È una modalità di finanziamento importante per il Tesoro, che nel passato ha permesso di soddisfare la parte principale della propria provvista fondi sui mercati internazionali. Come si evince dall’aggettivo “Global”, i titoli emessi sono diretti ad investitori di ogni parte del mondo, non essendo soggetti alle restrizioni alla vendita imposte dalla normativa Us. Il programma, infatti, soddisfa i requisiti di emissione imposti dall’autorità di vigilanza del mercato statunitense (Sec), pertanto il mercato di riferimento principale è quello degli Stati Uniti”.

A questo annuncio ha fatto seguito un doppio comunicato stampa del medesimo Dipartimento del Tesoro, datato rispettivamente 7 ottobre ed 8 ottobre. La “Global Investor Call” è stata affidata a Barclays Bank PLC, HSBC Bank e JP Morgan Securities PLC, lead manager del sindacato per il piazzamento dei titoli, affinché venissero collocate sul mercato degli investitori internazionali (“controparti qualificate, professionali ed al dettaglio”) delle emissioni multi-tranche a tasso fisso denominate in dollari americani. Secondo le condizioni del mercato stesso.

I dati numerici dell’emissione di Btp in dollari

L’asta dei Btp denominati in dollari statunitensi ha avuto un esito positivo al di là delle aspettative, con una presenza di centinaia di investitori differenti – ben distribuiti a livello geografico – ed una variegata gamma di tipologie degli stessi (asset manager, banche, hedge fund, Banche Centrali, istituzioni governative, assicurazioni, fondi pensione). Infatti, nonostante la volontà iniziale di collocazione per due o tre miliardi di dollari, il Tesoro italiano è giunto finanche a sette miliardi, a fronte di una richiesta quasi triplicata a livello numerico, e pari ad una cifra compresa fra i 18 ed i 20 miliardi. I proventi dell’emissione – si legge nel comunicato del Mef – saranno utilizzati per scopi generali: fra questi, anche la gestione del debito.

La multi-tranche, che potrebbe essere la prima di molte altre, magari in nuove valute (come lo yen giapponese) – che il Tesoro italiano sta effettivamente contemplando -, ha sfruttato il momento particolarmente fresco del mercato dei Buoni del Tesoro Poliennali. Un frangente nel quale il Mef ha fatto il pieno delle vendite, soprattutto per l’attrazione esercitata negli investitori da parte dei rendimenti lordi dei titoli di Stato con scadenza a cinque, dieci e trent’anni (ovverosia, rispettivamente: 17 ottobre 2024, 17 ottobre 2029 e 17 ottobre 2049). I sette miliardi sono stati così spartiti: 2,5 miliardi per i primi; 2 miliardi per i secondi; 2,5 miliardi per i terzi.

L’ultimo dato da rilevare sono proprio i rendimenti dei Btp in dollari, raccolti con precisione da Finanza.com: i titoli a cinque anni sono stati collocati al prezzo di 99,719 dollari, con un rendimento lordo del 2,435%; quelli a dieci anni sono stati collocati invece al prezzo di 99,089 dollari, con un rendimento lordo del 2,981%; infine, quelli a 30 anni sono stati collocati al prezzo di 99,619 dollari, con un rendimento lordo del 4,022%.

La scommessa del Tesoro e la questione dei derivati

Una volta presi in esame i dati dell’emissione, dei rendimenti, dei prezzi e degli acquisti da parte degli investitori, è assolutamente centrale porsi una questione semplice, ma non per questo di altrettanto facile risposta. Perché il Tesoro italiano, il cui Paese adotta ufficialmente l’euro come moneta a corso legale, ha emesso dei titoli di Stato in dollari americani, ovverosia in una valuta che non può controllare? (Anche se, invero, neppure la moneta unica europea dipende dalla sovranità politica dell’Italia, N.d.R.). Un’azione non nuova in Europa: basti pensare ai Panda Bond in yuan cinesi emessi dal Portogallo.

Come riporta InvestireOggi, il Mef ha effettuato quest’operazione per legare in maniera sempre più stretta l’Italia al mercato (finanziario) a stelle e strisce, attirando gli investitori internazionali che comprano in dollari con dei rendimenti doppi rispetto al mercato americano, i cui tassi sono generalmente più alti. Ma anche per spuntare condizioni favorevoli rispetto ai collocamenti in euro, giocando sul cambio euro-dollaro e sperando che questo vada nella direzione desiderata: cioè, quella di un indebolimento della valuta statunitense (rispetto alle aspettative di mercato).

Tuttavia, pur stanti queste condizioni, resta il problema dell’emissione in dollari dei titoli di Stato nazionali, a prescindere da eventuali deprezzamenti o rivalutazioni della moneta in questione. Infatti, usualmente, il rimborso a lungo termine per gli investitori dovrebbe avvenire in dollari. Una problematica non di poco conto, cui il ministero dell’Economia e delle Finanze ha cercato di porre rimedio attraverso lo sfruttamento del complesso sistema Credit Support Annex e le nuove regole sui derivati (cross currency swap).

Morya Longo, giornalista esperto di questioni finanziare per il Sole24Ore, in un suo articolo ha spiegato come, in certo qual modo, il possibile harakiri immaginato per questa operazione non abbia invece motivo di sussistere, in quanto il Tesoro ha stipulato un contratto derivato per proteggersi dal rischio di cambio, e tale perciò da trasformare subito in euro il bond emesso in dollari (che tali rimangono per gli investitori, dall’altra parte), alleggerendo il costo dei derivati stessi per le casse italiane. Un “effetto ottico”, poiché sui derivati ora vige una garanzia in cash bilaterale.

La criticità dei contratti derivati

Tuttavia, a prescindere dalla copertura messa in campo dal Tesoro, la complessità organica di questa operazione finanziaria d’ottobre non può comunque non destare perplessità, o quantomeno interrogazioni, domande e dubbi sulle sue scaturigini. Il suo sunto è esso stesso emblematico: il Tesoro, per finanziare le azioni socio-economiche del governo in Italia, si è rivolto al mercato internazionale, ed ha dovuto cercare una maggiore appetibilità rivolgendosi a determinati creditori, attraverso l’emissione di titoli di Stato in valuta straniera, sottoscritti assieme ad un contratto derivato che proteggesse dal rischio di cambio e che non gravasse sulle casse italiane (ma soltanto grazie alla nuova regolamentazione appena inaugurata).

Senza considerare, inoltre, i rischi dei derivati, come quelli sperimentati con i cosiddetti “Monti Bond” alla Morgan Stanley, o come addirittura il caso del comune laziale di Cassino, la cui emorragia di denaro verso la JP Morgan – cui poi ha fatto causa – a causa dei derivati è divenuta un caso studio del quotidiano economico Bloomberg. Nonostante la loro finalità assicurativa iniziale, la quale comunque rappresenta un rischio: non è incidentale che Luca Piana, in una sua analisi per L’Espresso, si sia rivolto a questi contratti con la dicitura “Dizionario di una catastrofe“.

Rischi più o meno calcolati, resisi peraltro necessari per un’operazione economico-finanziaria indice di una mancanza di indipendenza: emettere debito in valuta straniera implica avere un’alta somma di denaro da restituire sul lungo termine con interessi, ma una somma non emettibile attraverso una prestatrice di ultima istanza, quale una Banca centrale nazionale. Il caso del default argentino nel 2003 è emblematico.

Un’impalcatura debitoria sbilanciata

Naturalmente, anche prendendo in esame i dettagli di quanto messo in piedi dal Tesoro in quest’asta di Btp i dollari – allargare lo spettro dei detentori del debito diversifica il rischio, ma non lo annulla alla radice -, non si sta qui asserendo che quest’operazione implicherà un default. Tuttavia, il ricorso ad un tale allargamento di maglie del sistema finanziario è, senz’altro, indice di deficienze strutturali dell’impalcatura di finanziamento degli Stati.

Un’architettura che, peraltro, per l’Italia come per altri Paesi, in Eurozona si complica, in quanto a regolare la creazione di moneta è la Banca centrale europea, la quale per statuto e trattati regola l’inflazione e la stabilità dei prezzi, ma non garantisce i debiti sovrani, ed impedisce aiuti di Stato. Di fatto, indirizzando le loro politiche economiche, e spingendo i suddetti Paesi a cercare risorse presso investitori privati ed accreditati: un sistema che, stando alla natura della moneta fiat, si configura come fallace e pieno di insidie.

Infatti, Emanuele Canegrati, senior analyst di BP Prime, ha dichiarato a FinanciaLounge: “Quello che non è stato sottolineato abbastanza a nostro giudizio è il rischio Paese, visto che il Quantitative Easing promosso da Draghi sembra essere in difficoltà: l’asse franco-tedesco non sembra essere favorevole a questa nuova ondata di titoli di Stato e la nuova presidenza Lagarde potrebbe non usare il bazooka come ha fatto precedentemente Draghi. Questo sarebbe un problema per l’Italia”.

Un’ulteriore conferma di quanto asserito in precedenza. L’emissione, da parte del Tesoro italiano, di titoli di Stato in dollari Usa, pur coprendo il cambio in euro con contratti derivati, non è esente da rischi, come del resto non lo è, per gli Stati, rivolgersi unicamente a creditori privati per le proprie spese. Attraverso titoli di Stato, strumento che arricchisce positivamente anche i piccoli investitori, ma che è retaggio di quando esisteva la moneta-merce.

I sopraccitati creditori di debito pubblico, lapalissianamente, sono alla caccia di rendimenti. La loro scelta di preferire uno Stato ad un altro implica anche un condizionamento delle scelte politiche di questi ultimi: perciò, i creditori vengono in essere come attori politici. La differenziazione di questi ultimi attutisce gli effetti, ma non va al fulcro, il quale fa pendere il peso sempre verso una determinata parte del sistema oggi in essere. E non è quella degli Stati.