Il 2020 è stato un anno “acceleratore” di diverse dinamiche sociali, economiche, finanziarie. La pandemia, vero proprio Giano Bifronteha “de-globalizzato” a lungo i collegamenti internazionali, i flussi turistici e, soprattutto, le catene del valore e del commercio globali, ma ha catalizzato una spinta ulteriore verso la digitalizzazione dei sistemi economicilo sdoganamento dello smart working e la centralizzazione del potere economico nel contesto dei grandi colossi della tecnologia.

Logico che da questi mutamenti originassero conseguenze a cascata sull’ordinamento economico internazionale e sull’andamento delle borse di tutto il mondo, che anche mentre in tutto il mondo i casi quotidiani di coronavirus si contavano a centinaia di migliaia e la conta dei decessi saliva impietosamente sopra il milione hanno macinato record su record, specie negli Stati Uniti centrali nella definizione dei processi tecnologici globali. Nasdaq e S&P500 hanno raggiunto vette che non si conoscevano dai tempi della “bolla dell’It” di fine XX secolo, Apple ha toccato i 2mila miliardi di dollari di quotazione, Tesla ha aumentato di circa otto volte il suo valore borsistico fino a 578 miliardi di dollari (quasi venti volte la previsione di ricavi per il 2020), mentre tra Facebook, Google, Netflix e Zoom vecchi e nuovi giganti del digitale presidiano tenacemente il mercato.

Il virus acceleratore, anche in questo caso, non ha creato nuovi equilibri ma dato slancio a processi già esistenti. E questo si riflette su quei fondamentali rendiconti paralleli alla capitalizzazione borsistica che sono i bilanci aziendali dei giganti dell’economia statunitense, al cui interno il 2021 segnerà un’ulteriore espansione del digitale ai danni del materiale. Che i principi contabili internazionali (Ias) stanno per ora inseguendo piuttosto che governando. Algoritmi, brevetti, dati, software rappresentano oramai da tempo il centro decisivo di competizione e anche guardando a come le grandi società iscrivono a bilancio i propri asset si nota una divaricazione sempre più netta tra il valore di mercato delle aziende e il valore delle immobilizzazioni materiali contabilizzate.

Come fa notare Il Sole 24 Ore, ” l’hi tech rappresenta un terzo del valore totale della Corporate America, ma il 40% del valore totale dei loro beni materiali. In particolare, circa 10mila società quotate in borsa nel mondo avevano l’anno scorso una capitalizzazione di mercato di oltre 200 milioni di dollari e ricavi di almeno 100 milioni. Insieme, totalizzavano 40 trilioni di ricavi e 74 trilioni di dollari di valore aziendale. Solo il 30% era rappresentato dalle attività materiali nei loro bilanci”, il restante era costituito dal capitale immateriale che è già ed è destinato a diventare sempre di più il centro decisivo per la creazione di vantaggio competitivo e utili.

Facebook e Google hanno costruito degli imperi sulla valorizzazione degli algoritmi; Amazon domina col cloud, assieme a Microsoft, che avrà certamente delle controparti materiali coi grandi data center che la sua gestione impone ma crea valore proprio nella “nuovola” digitale. Nei settori di frontiera, da quello delle energie rinnovabili all’auto elettrica, il valore aggiunto principale nelle supply chain si riscontra proprio nella componente software. Elon Musk prevede ad esempioche il 25% dell’utile di Tesla entro il 2025 non sarà dato dalle auto in quanto tali, ma dagli algoritmi interni di guida autonoma.

Il costo d’iscrizione di bilancio di brevetti, diritti di proprietà intellettuale, prodotti dell’R&D interno e cespiti simili è assolutamente aleatorio. Gli esperti di sport si ricorderanno il problema delle plusvalenze fittizie creato dalle principali società calcistiche durante il “calciomercato”: calciatori che al momento della vendita a un’altra società tramite scambio vedevano il prezzo del loro cartellino inflazionarsi oltre il suo valore reale. In un certo senso per le immobilizzazioni immateriali delle società digitali succede qualcosa di simile: tali asset non sono contabilizzati “fino a quando il loro valore reale viene fissato in una transazione: di conseguenza, molti beni immateriali di grande valore non compaiono mai nei rapporti finanziari. La conferma è in uno studio della società di analisi Brand Finance: a fine 2019, il 34% del patrimonio totale delle società quotate a Wall Street era costituito da valore non divulgato”. E il governo statunitense, che nella competizione globale con la Cina necessita di mantenere dritta la barra del timone sulla sua finanza e i suoi settori più innovativi, ha incentivato questa pratica rischiosa promuovendo una vera e propria “iniezione” di 500 miliardi di dollari al Pil nazionale sotto forma di marchi, algoritmi, brevetti made in Usa contabilizzati come produzione nazionale.

Nell’anno della pandemia l’economia immateriale è decollata oltre ogni frontiera precedentemente immaginabile. Questo crea il problema di possibili concentrazioni di potere economico in un numero ristretto di mani, ma anche importanti questioni di natura occupazionale, fiscale e distributiva. Come calcolare la possibilità di imposizione fiscale e la sua equità su asset la cui stessa contabilizzazione sfugge nei vortici del gioco borsistico? Come premiare le aziende che a una crescita dei valori borsistici fanno corrispondere un aumento delle possibilità occupazionali e dei salari reali? Come evitare che a fuggire dal fisco e dall’imposizione siano amministratori, manager e investitori che guadagnano sulla dilatazione delle azioni indipendentemente dall’andamento reale dell’azienda? Sono questioni fondamentali che l’uscente amministrazione Trump, negli Usa, lascerà insolute. E che Joe Biden dovrà giocoforza affrontare, per riordinare e garantire il primato dell’azione politica su un sistema economico ipertrofico e potenzialmente sregolato.

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