Tra il 29 marzo e l’1 aprile il titolare della Farnesina, Luigi di Maio, è stato impegnato in un breve ma intenso tour lungo i Balcani occidentali che lo ha condotto in Serbia, Bosnia Erzegovina e Montenegro. Dei tre, la Bosnia Erzegovina è la nazione più sensibile dal punto di vista della coesistenza interetnica e interreligiosa, un terreno di scontro tra Occidente e Russia ed un teatro di fondamentale importanza per l’Italia.
Di Maio in Bosnia
Il tour balcanico del ministro degli esteri italiano è iniziato a Podgorica il 29 marzo, è proseguito a Sarajevo tra la seconda parte della stessa giornata e il 30 e, infine, si è concluso a Belgrado l’1 aprile. È nella capitale bosniaca che l’agenda dei lavori è stata più fitta che altrove: una visita al contingente italiano della missione Eufor dell’Alleanza Atlantica, un faccia a faccia con l’omologo bosniaco Bisera Turković, un incontro con il primo ministro Zoran Tegeltija, e un vertice con i capi della presidenza tripartita, ovverosia Milorad Dodik, Zeljko Komsic e Sefik Dzaferovic.
Innumerevoli e variegati i temi che il titolare della Farnesina ha avuto modo di discutere con le più importanti personalità della Bosnia Erzegovina: dal percorso d’adesione all’Unione europea alla pandemia, passando per la cooperazione bilaterale e la sicurezza regionale. Di Maio ha ribadito che Roma sostiene l’ingresso di Sarajevo nell’Ue e dato ragione ai vertici bosniaci per quanto riguarda un tema spinoso: Bruxelles dovrebbe supportare più energicamente e proattivamente il contrasto alla pandemia negli stati dell’ex Iugoslavia a mezzo di aiuti umanitari e invio di vaccini.
Noi e Sarajevo
V’è un motivo alla base della centralità di Sarajevo all’interno del tour balcanico del ministro degli esteri italiano: è un teatro di importanza fondamentale per il Bel Paese, che ivi ha una caterva di interessi da preservare, di progetti da portare avanti e di piani futuri da trasporre in realtà. L’Italia figura seconda nella classifica dei primi cinque collaboratori commerciali della Bosnia Erzegovina, con un interscambio pari a un miliardo e 900 milioni di euro nel 2019 e per la quale rappresenta il secondo esportatore (dietro la Germania) e il quarto importatore (dietro Germania, Croazia e Serbia).
Sodalizio commerciale a parte, l’Italia è anche uno dei maggiori investitori stranieri: più di settanta imprese nostrane sono attive ed operanti nel panorama lavorativo bosniaco, all’interno del quale esercitano un impatto riguardevole poiché fonte di occupazione per circa 12.000 persone, e il Gruppo UniCredit rappresenta il primo e principale investitore straniero nel settore finanziario nazionale, essendo detentore di una fetta di mercato pari al 30%.
In sintesi, l’Italia c’è, ma si potrebbe e si vorrebbe fare di più. La visita del titolare della Farnesina è stata concepita (anche) per questo motivo: elevare ulteriormente le già ottime relazioni bilaterali facendo leva su commercio e investimenti, senza trascurare la rilevanza del fattore potere morbido, ovverosia la cultura. A quest’ultimo proposito, come ha rammentato il ministro Di Maio in occasione del tour, l’anno prossimo è prevista l’apertura di un istituto italiano di cultura a Sarajevo. Un’iniziativa apparentemente poco importante, più culturale che politica, ma che cela un significato notevole: è un segno della brama di Roma di preservare l’influenza su Sarajevo, quivi promuovendo l’italianità e la cultura della tolleranza, introducendosi nella battaglia per la conquista della sua anima e per la costruzione di un’identità post-iugoslava; battaglia che, qui come altrove, ci vede impegnati ad affrontare un temibile rivale: Ankara.
Puntare su investimenti e commercio è fondamentale – perché trattasi di strumenti che l’Italia sa come maneggiare e grazie ai quali, se adeguatamente utilizzati, si potrebbe puntare al titolo di primo partner commerciale della Bosnia sia nelle importazioni sia nelle esportazioni –, ma non va dimenticato il ruolo determinante giocato dal potere morbido, che, lungi dal coincidere semplicemente con la promozione di attività culturali e corsi di lingua, significa anche informazione (televisione, stampa, radio e nuovi media), cooperazione umanitaria, collaborazioni accademiche e, ultimo ma non meno importante, religione. L’Italia impari dalla Turchia, che ha silenziosamente riaffermato la propria influenza nell’intera area ex ottomana grazie ad una distesa di canali informativi, enti nongovernativi e circuiti religiosi (scuole e moschee), e formuli un’adeguata strategia culturale per la pivotale Bosnia-Erzegovina.