Il momento “Ponzio Pilato” della Federal Reserve è iniziato? Nelle scorse giornate l’istituzione monetaria statunitense di riferimento ha dichiarato che inizierà a ridurre, già a partire da questo mese, il ritmo dei suoi programmi di acquisti di titoli pubblici e privati per 15 miliardi di dollari complessivi, prevedendo dunque una strategia di uscita dal più grande programma di stimolo monetario mai messo in campo a partire dalla crisi pandemica, vero e proprio secondo tempo del quantitative easing globale avviato da Ben Bernanke nel 2009.

Se finora la Fed procedeva al ritmo di 120 miliardi di dollari di acquisti ogni mese nel suo piano, a novembre si scenderà a 70 miliardi di dollari sui Treasuries, i titoli di Stato Usa, ed a 35 miliardi su titoli bancari garantiti da mutui. Da lì in avanti si procederà fino a giugno con un taglio di 10 miliardi sul primo fronte e 5 sul secondo, fino all’azzeramento dello stimolo all’economia.

Quale logica è sottostante a questa decisione? Di fatto l’idea che la crisi economica possa esser considerata già alle spalle e che si può tornare a una situazione pre-Covid. Ma il mantra del governatore Jerome Powell pare essere una prudenza eccessiva che lascia presagire una decisione pilatesca della Fed di fronte ai tre grandi rischi che la ripresa Usa e globale pare destinata ad affrontare: le dinamiche dei mercati finanziari, la tenuta dell’inflazione e la stabilizzazione dei settori in crisi.

Il risiko finanziario che attende gli Usa

Su tutti e tre i fronti la Fed appare essersi sostanzialmente lavata le mani di fronte alla necessità di esercitare quel ruolo di leadership che le banche centrali sono state chiamate a maneggiare in questi anni. Dal 2011 ad oggi la Federal Reserve Usa ha espanso il suo bilancio da poco più di 2mila a 7mila miliardi di dollari, in un trend che la pandemia ha accelerato ma non certamente inaugurato. E larga parte di questa massa di denaro si è fermata nel gioco finanziario, nella speculazione, nei buyback azionistici, in una sardana impazzita che è proseguita anche mentre i lockdown da Covid fermavano l’economia globale, le vittime si contavano a centinaia di migliaia negli Usa e, al contempo, i giganti di Wall Street e del Nasdaq infrangevano ogni record di capitalizzazione. Sottolineando come anche in tempo pandemico il doping monetario della Fed, condizione da loro ritenuta strutturale, continuava a fare gli effetti di un tempo: e di fronte alla prospettiva di una graduale uscita dallo stimolo la Fed si trova di fronte al rischio di aver imposto, per giugno, una soglia temporale chiara che potrà comprimere nelle prossime settimane e e nei prossimi mesi le manovre spericolate, le speculazioni e le azioni di finanza corsara garantite dai bassi prezzi del denaro e dalla disponibilità di liquidità.

L’assoluta divaricazione tra valori borsistici e ripresa economica, casi come quelli di Robinhood e GameStop e la corsa alle quotazioni dei titoli tech che da poche settimane vede partecipare anche l’ex presidente Donald Trump sono dovuti anche alla presenza di una politica accomodante da parte della Fed, mentre nel frattempo il finanziamento al deficit pubblico Usa non tiene il ritmo della corsa all’investimento finanziario ad alto rendimento speculativo in atto. Spalmare nel corso di un lungo semestre l’exit solution, in altre parole, non porta con sé alcuna strategia seria per fermare il circolo vizioso della finanza: essa è dipendente dal contesto creato dalle banche centrali, ma può al tempo stesso ricattarle come avvenuto a fine 2018 minacciando un big bang borsistico in caso di azzeramento degli stimoli; in mezzo, vi è l’illusione ottica di una crescita dopata da quotazioni finanziarie dilatate, dividendi, riacquisti di azioni proprie da parte dei gruppi. Uscire dagli stimoli massici per la prima volta nell’era del quantitative easing globale non dà alcuna garanzia che gli appetiti speculativi non si scatenino nei mesi a venire ora che il benchmark temporale formale è stato indcato.

Il problema dell’inflazione

Il tapering, il processo di ammorbidimento dello stimolo economico del Qe, è dunque da ritenersi una politica di gestione del rischio più che una strategia strutturale. Ma il culmine del tentativo di bilanciamento fatto dalla Fed di Powell si può apprezzare sul tema dell’inflazione, che corre a livelli senza precedenti negli ultimi anni. I miliardi di dollari del Qe non sono riusciti a creare in un decennio la massa di inflazione che le dinamiche strutturali del Covid sono riuscite a produrre con il brusco attrito creatosi tra chiusure e riaperture. Powell ha dichiarato che a suo avviso le dinamiche inflazionistiche “restano prevalentemente connessi alle dislocazioni dovute alla pandemia, mentre alla Federal Reserve capiamo le difficoltà delle famiglie, specialmente per rincari su alimentari e trasporti, ma continuano a ritenere che gli equilibri di domanda e offerta si aggiusteranno”.

Una chiusura fideistica sull’autorità ultima del mercato che cozza con la logica stessa dell’intervento massiccio che due amministrazioni di diverso colore politico e la banca centrale Usa hanno promosso in un anno e mezzo di pandemia. Logico che come conseguenza appare chiaro considerare il fatto che Powell non sappia, ad ora, come raccapezzarsi. E che sia la dimostrazione di un problema politico la sua ammissione di un contesto caratterizzato, nota Il Sussidiarioda ” inflazione elevata – ma transitoria” e “dalla presenza di strozzature nell’offerta non risolvibili né dalla Fed, né da qualsiasi Banca centrale. Allora, la domanda sorge spontanea, partendo proprio dalla conclusione: qual è l’autorità che le può risolvere” se con la sua dichiarazione fideistica nel mercato Powell sembra dimostrare poca fiducia per Casa Bianca e Congresso? Il problema si estende a tutto l’Occidente. E parlando del tema di un’inflazione elevata ma transitoria si registra “un assurdo nella locuzione stessa”, dato che “l’inflazione è un fenomeno generalizzato all’intero corpo sociale, per essere elevata deve essere anche diffusa”. Il non detto è il fatto che l’unione tra il rischio di una crisi finanziaria strutturale e i problemi dell’inflazione rischiano di logorare le prospettive di ripresa della classe media Usa e dei settori risultati più colpiti dal Covid.

Classe media a rischio?

La crisi pandemica, acceleratrice di caos e disuguaglianze, potrebbe vedere la sua soluzione risolversi in una nuova divaricazione. Da un lato un’ulteriore corsa della bolla finanziaria che metterà in difficoltà le banche centrali difficilmente in grado di controllarla, accelerata dalla presenza di una soglia temporale chiara per l’uscita dal Qe; dall’altro, una vaghezza nelle strategie di contrasto all’inflazione che indirettamente danneggia redditi e prospettive economiche di classe media e consumatori negli Usa e non solo. Mettendo anche a repentaglio i necessari investimenti strategici che servono a far ripartire i settori colpiti maggiormente dalla pandemia.

La scelta della “regina” delle Banche centrali che sceglie di non porre linee rosse ai mercati e affida loro, di fatto, il potere di condizionare l’evoluzione dell’economia è del tutto politica e va in controtendenza con le volontà di ricerca di una maggiore coesione sociale ed economica dell’amministrazione di Joe Biden. Qualsiasi peggioramento della pandemia di Covid-19 nei mesi invernali espanderebbe ulteriormente lo schema ampliandone gli aspetti più problematici, in una caotica anticipazione del dilemma che nei mesi a venire interesserà l’Europa. Di fronte al rischio di un assalto dei falchi rigoristi, è bene guardare agli Usa. E ricordare che l’uscita da una crisi come quella del Covid-19 non avverrà se non per mezzo di decisioni politiche da parte degli attori primari e non dei regolatori monetari. A lungo supplenti di una politica che ha latitato nella presa di decisioni strategiche.





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