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Joe Biden agisce in sostanziale continuità con Donald Trump nel considerare la Cina il rivale strategico numero uno per gli Stati Uniti. Anzi, si può dire che il contrasto alla Repubblica Popolare sia il più importante tema bipartisan nella politica americana e, anzi, uno dei settori dell’azione della superpotenza a stelle e strisce in cui Casa Bianca, Congresso, apparati federali e pensatoi strategici sono sostanzialmente allineati su una posizione comune. Ovvero quella del contenimento della Cina, della sua espansione come potenza tecnologica, militare, commerciale, geopolitica, del suo soft power e dell’allineamento dell’Occidente sotto la guida Usa per creare piani alternativi ai progetti della “Nuova via della seta”.

A questo proposito il G7 di Cornovaglia, primo importante consesso che ha visto riuniti in presenza i leader occidentali nel 2021, ha portato al rilancio di una proposta che il presidente Usa aveva già avanzato al padrone di casa, il premier britannico Boris Johnson, nel mese di marzo: costruire un’alternativa occidentale alla Belt and Road Initiative che sappia coniugare la costruzione di nuove rotte per il governo dei flussi commerciali, un rilancio della connettività infrastrutturale e un’integrazione di Paesi a medio e basso reddito nelle nuove direttrici di sviluppo dell’economia globale con il ridimensionamento delle ambizioni di Pechino.

La Bri, pur in forma disomogenea, sta crescendo come sistema in grado di mettere Pechino de facto al centro delle rotte commerciali mondiali attraverso un rilancio dei collegamenti terrestri dell’Eurasia, dei progetti marittimi sull’asse Mediterraneo-Suez-Indopacifico e della connessione del Paese alle nuove frontiere delle rotte artiche e dei collegamenti digitali e spaziali. Un sistema multidimensionale avente al suo centro un piano chiaro: plasmare una nuova forma di globalizzazione non necessariamente dipendente dalle istituzioni di rule of law plasmate dagli Stati Uniti e capaci di mettere al centro i legami concreti.

Refinitiv ha sottolineato che i progetti della Bri oggigiorno sono circa 2.600 coinvolgono oltre 100 Paesi, hanno un valore complessivo di 3,7 trilioni di dollari. Il governo cinese ritiene che un quinto di essi abbia subito danni o ritardi dalla pandemia di Covid-19, ma lo stesso emergere dell’emergenza sanitaria, del cosiddetto “virus acceleratore” ha catalizzato la necessità di chiarire il dilemma geopolitico della Bri. Che Pechino vuole spingere fino in fondo e Washington contrastare. EuNews ha potuto ottenere i commenti di un ufficiale dell’amministrazione Biden che parlando sotto condizione di anonimato ha definito reale e concreta la prospettiva di un annuncio di un’iniziativa volta a contrastare la Bri da parte dei Paesi del G7. Un piano paragonabile a quello stipulato dall’Unione europea assieme all’India per la cooperazione infrastrutturale, ma dal respiro molto più ampio.

Il progetto sarà rivolto a stimolare la cooperazione agli investimenti nei Paesi in via di sviluppo, principalmente in Africa, Asia, America Latina. Gli Stati che sono i maggiormente interessati dalle ambizioni cinesi. Pur non rivelando come il G7 intende finanziare un progetto volto a stimolare la spesa in infrastrutture per la crescita e l’aggancio ai mercati mondiali delle economie meno sviluppate, il funzionario Usa sottolinea che quella che Biden pensa è una “Via della Seta delle democrazie” in cui sarà necessario concilaire sviluppo e rispetto delle pratiche di tutela del lavoro, dell’ambiente e della salute nello sviluppo dei progetti. Una sorta di applicazione globale dello schema Building Back Better che anima le proposte economiche dell’amministrazione Biden secondo uno schema inaugurato proprio da Johnson.

E come ricorda La Stampa, questa non sarà l’unica iniziativa con cui il G7 vorrà stimolare la crescita su scala mondiale. “Primo, i leader del G7 continueranno i sostegni fiscali per la ripresa, e gli interventi strutturali di lungo termine. Secondo, si impegneranno ad indirizzare i 650 miliardi stanziati dall’Fmi con i diritti speciali di prelievo per la crescita nei Paesi a basso reddito, dove la pandemia ha avuto un impatto più forte e il recupero è più lento. Terzo, applicheranno la global minimum tax del 15%”.

La strategia Usa mira a ricostruire il soft power declinante della superpotenza dopo un ventennio in cui dapprima gli Usa non hanno accettato l’esistenza di falle e alternative possibili al loro modello di globalizzazione e poi, nell’era Trump, pur accorgendosi dei risultati di alcune asimmetrie hanno tentato di arroccarsi su un unilateralismo rivelatosi spesso velleitario. Il Covid-19 ha riportato in campo la necessità di programmare strategie politiche per l’economia, rimesso sul terreno la natura fondamentale dell’intervento pubblico, esacerbato la battaglia dei giganti sino-statunitense sui terreni di rivalità tradizionali. Con il suo progetto globale Biden guarda alla Cina, e al suo contrasto, ma punta in primis agli alleati tradizionali, europei in testa: la “via della seta” a stelle e strisce è in primo luogo un pretesto per compattare sul contenimento di Pechino l’Europa, prevenendo quelli che a Washington sono ritenute “sbandate” e flirt con il Dragone. Proprio il fatto che l’Europa possa passare in pochi mesi dalla stipula dell’Accordo generale sugli investimenti (Cai) con la Cina a dichiararla, di fatto, nemico strategico numero uno la dice lunga sulla natura primaria dell’influenza di Washington su un Vecchio Continente senza bussola.

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