La fase più calda conosciuta dall’Italia nel rapporto con l’Unione europea negli ultimi anni è stata quella coincisa con la stesura della manovra finanziaria 2018 ad opera del governo Conte I formato da Lega e Movimento Cinque Stelle. L’asprezza dei toni, le dure accuse incrociate e il climax di accuse reciproche sono stati per mesi la quotidianità che ha riempito il panorama politico-informativo. Portando a una lettura estremamente distorta.

Da un lato, il governo giallo-verde premeva per portare il rapporto deficit/Pil al 2,4% (poi assestato a 2,04% dopo aspre trattative) presentando la manovra fondata su reddito di cittadinanza e Quota 100 come la svolta per l’economia nazionale; dall’altro buona parte del complesso mediatico e l’opposizione economica seguivano a tamburo battente le uscite improvvide di diversi membri della Commissioneguidati da Pierre Moscovici, presentando la manovra grillo-leghista come il presupposto per lo sfascio dei conti pubblici. Esagerazioni problematiche per garantire l’impostazione di un serio dibattito.

Da un lato, infatti, sono risultati credibili gli allarmi di chi nel governo, come Paolo Savona, chiedeva una manovra maggiormente rivolta sugli investimenti produttivi e non sulla spesa corrente. Dall’altro, l’idea di un deficit distruttore dell’equilibrio pubblico si è rivelata pura mistificazione.

A dimostrarlo il più recente Bollettino economico della Banca d’Italia, secondo cui il deficit reale per il 2019, anno di entrata a regime delle misure gialloverdi, non supererà il 2,2% del 2018. Confermando la realtà dei fatti: il deficit del governo Conte I era, scripta manent, più basso di tutti quelli dei governi precedenti, da Monti a Gentiloni. Bisogna tornare al 2007, all’ultima manovra del governo Prodi II, per trovare un deficit tanto basso. A testimonianza sia della fallacia della retorica della “manovra di rottura” sia dell’inconsistenza di certi allarmismi.

Tutto sommato l’era gialloverde ha prodotto risultati discreti sotto il fronte dell’occupazione e avviato, secondo quanto scrive Via Nazionale, un moderato sentiero di crescita (+0,5% l’aumento del Pil nel 2019) che avrà effetti positivi sul 2020 (+0,9%) e 2021 (+1,1%). Il presidente del Consiglio Giuseppe Conte, nel frattempo, evitava per due volte l’apertura di una procedura d’infrazione da parte della Commissione che si sarebbe basata esclusivamente sullo scontro tra i diversi parametri interpretativi usati nella stesura dei bilanci a Roma e Bruxelles, su questioni fumose come il celebre “output gap” e non su reali problemi di sostenibilità politica.

In fin dei conti, parlando dell’era gialloverde si può dire che sia stato fatto tanto rumore per nulla: il governo Conte I si è comportato in continuità con gran parte degli altri esecutivi della Seconda Repubblica e non ha prodotto sfaceli né riforme mirabolanti. Interessante è constatare come il nuovo governo Conte II, a guida M5S-Pd, abbia negoziato un deficit pari al 2,2% che, di fatto, si inserisce sulla scia di quello realmente generato nel corso dell’attività dell’esecutivo precedente.

Annunciare un deficit al 2,2% del Pil significa mettere in conto che il valore reale possa essere, di fatto, maggiore: il Pd e i suoi alleati lanciavano anatemi contro ipotesi del genere nel 2018, e alcuni dei suoi esponenti si erano implicitamente uniti di coloro che tifavano per lo spread, ma il nuovo esecutivo giallorosso, sfruttando i pochi dividendi garantiti dal maggiore afflato europeista, non ha avuto remore a prendere come punto di riferimento l’esecutivo precedente. It’s not the economy, it’s politics. Con tutte le doppie morali e le (non) logiche che abbiamo imparato a conoscere in Europa.