Archiviata con velocità sorprendente la strategia rilassata nei confronti del coronavirus, il governo britannico di Boris Johnson ha reagito con forza e ha iniziato a introdurre misure di contenimento della mobilità per diffondere il contagio e piani di stimolo economico per attenuarne gli effetti materiali. Dal 23 marzo è in vigore la stretta sulla chiusura delle scuole, mentre il National Health Service in attesa di rinforzo in termini di organico prova a contenere l’ondata dei contagi facendo appello a personale volontario e richiamato dalle pensioni.
Sul piano operativo e macroeconomico, il governo vede nella crisi, da un lato, uno stop al suo programma operativo iniziato con l’aumento al salario minimo, proseguito con l’inizio del processo di riaccentramento del controllo delle ferrovie e frenato dopo l’annuncio di un colossale piano di investimenti in infrastrutture. Dall’altro però rende obbligata la scelta di rottamare l’austerità che i predecessori conservatori di Johnson avevano portato avanti e che aveva portato alla rottura tra il premier e l’ex cancelliere allo Scacchiere Savid Javid.
Rishi Sunak, successore di Javid nel gabinetto, ha recentemente annunciato una serie di piani anticrisi che danno l’immagine della preoccupazione destata dall’ascesa dell’epidemia di coronavirus nei domini di Sua Maestà. Si è iniziato, ricorda Il Sussidiario, con “i 5 miliardi di sterline per il sistema sanitario ed i 7 miliardi per l’industria turistica già stanziati con la finanziaria dell’11 marzo. A cui si sono aggiunti 20 miliardi per tutte le piccole attività che venivano obbligate a chiudere martedì 17 marzo”.
A queste misure sono seguite nuove, imponenti politiche anticicliche promosse nella giornata del 20 marzo: l’esecutivo garantirà l’80% dello stipendio, fino a un tetto di 2.500 sterline al mese, per i furloughed workers, ovvero i lavoratori che saranno messi in una sorta di “cassa integrazione” per ragioni legate al coronavirus. La misura, secondo stime del Financial Times, costerà 3,5 miliardi di sterline per ogni milione di lavoratore che sarà posto in tale condizione.
A ciò si aggiungono, sottolinea il quotidiano della City, 7 miliardi per il rafforzamento del welfare. E non solo: il pacchetto del governo Johnson è onnicomprensivo, comprende il massiccio differimento di pagamenti Ivadovuti dalle aziende da qua a giugno (complessivi 30 miliardi di sterline): siamo a 50 miliardi di sterline messe sul campo senza contare gli effetti delle misure a raggio variabile o non predeterminato. Un pacchetto anti-crisi gradualmente congegnato e che accompagnerà Londra fino alla prossima estate, uno shock da 2% di Pil per controbattere la crescita dei contagi e le conseguenze economiche che verranno.
La dotazione complessiva eguaglia quella del governo laburista di Gordon Brown, che affrontò la crisi bancaria e finanziaria del 2008 e tra quell’anno e il 2009 portò il deficit al 10% del Pil. Johnson potrà cogliere al balzo la palla della risposta emergenziale per vincere la battaglia interna al partito combattendo le ultime resistenze di conservatori non favorevoli allo shock anti-austerità. Quella che era fino a pochi mesi fa una posizione politica è diventata una necessità impellente per il Regno Unito. Giunto alla prima prova del dopo Brexit in una fase in cui si va incontro alla necessità di ripensare la globalizzazione di cui Londra ha voluto farsi attore autonomo uscendo dall’Unione Europea ma in cui anche oltre Manica ognuno fa, sostanzialmente, per sé. Londra sceglie la strada dello stimolo fiscale con un volume ingente: e non è una novità, in un Occidente in cui questo tipo di misure è destinato a diventare maggioritario.