Dal 2016 a oggi in ambito mediatico, dentro e fuori dagli Usa, si è pesantemente discusso sul tema del presunto dualismo tra l’amministrazione Trump e le industrie della Silicon Valley. Da un lato si schiererebbe il presidente protezionista, anti-immigrazione, industrialista, portavoce dell’America profonda. Dall’altro il mondo del big tech, progressista, multiculturale, accampato principalmente in California, Stato diventato portabandiera dell’antitrumpismo.
La retorica ha scarso appiglio nella realtà dei fatti. Gli affari sono affari: il big tech non può negare il suo sostegno ai programmi governativi, che rappresentano una fetta considerevole dei suoi introiti, mentre la Casa Bianca deve irreggimentare i campioni nazionali statunitensi in una fase di confronto con la Cina. Chiamandoli alla necessità della scelta di campo. Ricordando la matrice statunitense della rete supposta come globale. Invitandoli a una nuova collaborazione con solidi argomenti economici, sotto forma di appalti miliardari e sconti fiscali a tutto campo.
Amicizia e familiarità, del resto, non sono necessarie in un rapporto di business: basta il mutuo vantaggio, e amministrazione e giganti del web sanno gli argomenti da toccare per conseguirlo. Abbattendo l’aliquota fiscale sui redditi d’impresa al 21% e favorendo un meccanismo che ha spinto le imprese del big tech a una quotazione borsistica complessiva di 5.384 miliardi di dollari (pari a 4.879 miliardi di euro), cioè 2,5 volte il prodotto interno lordo italiano, l’amministrazione ha decisamente fatto la sua parte. Al contempo, il big tech ha gradualmente apprezzato l’opportunità di flirtare con The Donald.
Di Tim Cook, ad di Apple, sono note le partite a golf con Trump, le colazioni di lavoro col Presidente, le manovre di avvicinamento. Cook non è ipocrita: conosce la dipendenza della sua azienda dalla leadership globale tecnologica statunitense prima ancora che dalle catene del valore che hanno portato alla delocalizzazione della produzione in Cina. A novembre, Trump è arrivato a chiedere al ceo di Apple di aiutarlo a sviluppare le infrastrutture del Paese per il 5G: “Abbiamo tutto quello che occorre. I soldi, la tecnologia, la visione e Cook” ha twittato. Per ingolosire ulteriormente Cupertino, Trump ha esentato i prodotti Apple dagli ultimi round di dazi contro la Cina.
Ancora più ombelicare è il legame tra la Casa Bianca e due colossi come Microsoft e Ibm. Trump è intervenuto in prima persona per favorire il ridimensionamento del peso di Amazon nella corsa al contratto per il progetto di cloud del Pentagono (Jedi Initiative), un progetto da dieci miliardi di dollari assegnato alla società fondata da Bill Gates. Mentre sembra avvenire sul solco dell’avvicinamento all’amministrazione la transizione ai vertici di Ibm. La storica ad Ginni Rometty, 62 anni, cederà ad aprile il posto al 57enne Arvind Krishna, responsabile dell’area cloud, software e analisi su cui si è plasmata l’alleanza tra la storica società e gli apparati di potere statunitensi. La Rometty ha guidato, spiega StartMag, la transizione di Ibm verso un ruolo di prima grandezza in settori come la blockchain, l’intelligenza artificiale e il calcolo quantistico. Settori in cui gli Usa competono a livello globale con la Cina e in cui un rafforzamento interno è visto a Washington come funzionale all’interesse nazionale.
Ora che l’amministrazione ha lanciato la politica protezionista sulle tecnologie di frontiera, la comunanza di interessi tra la visione strategica dello Stato e il big tech sarà sempre più profonda. Cooptato nella strategia “America First”, il big tech avrà in cambio contratti miliardari e favoritismi politici: Apple, Microsoft e Ibm sono i preferiti della Casa Bianca, ma l’alta marea degli appalti e degli sconti fiscali lascia spazio di navigazione a molti altri attori: la stessa Amazon, Google, Oracle. Per non parlare dei produttori di componentistica come Qualcomm e Intel. I ceo della Silicon Valley brindano a Trump: e in vista delle elezioni di novembre c’è da aspettarsi un atteggiamento molto più morbido rispetto alle aspre critiche piovute sul tycoon repubblicano nel 2016.