Divisione sembra essere la parola d’ordine in queste settimane convulse per l’Unione europea. Divisi sono i Paesi su dossier chiave come l’immigrazione, divisi governi e Parlamento europeo sulle nomine alla Commissione, con il presidente dell’assemblea di Strasburgo David Sassoli che prova a fare da paciere, divisi tra di loro gli esecutivi nazionali sulle (per ora) bloccate adesioni di Albania e Nord Macedonia. E a essere divisa al suo interno è anche la Banca centrale europea (Bce), che si appresta a salutare Mario Draghi dopo otto, intensi anni che hanno portato il governatore romano a diventare la figura chiave dell’Europa.

Draghi, in odore di nomina a senatore a vita in Italia, lascerà il testimone alla francese Christine Lagarde, in arrivo dal Fondo monetario internazionale (Fmi) dopo aver affrontato vittoriosamente a settembre la sua ultima battaglia: far ripartire un piano di acquisto titoli che dia vita a un secondo quantitative easing per l’Eurozona, da declinarsi in tono minore rispetto a quello del 2015-2018 (20 miliardi di acquisti mensili) ma senza al contempo fissare alcun orizzonte temporale.

Draghi, che con la sua mossa ha suscitato anche il desiderio di Donald Trump di avere una Fed altrettanto interventista, ha subito per questa decisione il duro attacco delle banche nazionali di Germania, Francia e Olanda, i cui governatori guidati dal tedesco Jens Weidmann hanno mostrato scetticismo per tale manovra definita controproducente. Certo, in effetti il nuovo Qe lo è, ma nel senso opposto a quello inteso da Weidmann: inserire moneta nell’economia per sostentare i rendimenti borsistici altrimenti messi a repentaglio dallo sgonfiamento della bolla dei tassi bassi e della moneta a buon mercato e non per intervenire direttamente nell’economia reale  implica una politica monetaria destinata a reiterare i limiti che hanno ridotto l’impatto del primo Qe su crescita e inflazione.

Draghi ha portato avanti le sue politiche a prezzo di una frattura nel board Bce per mettere in minoranza i falchi del rigore e le loro pretese di maggiore austerità fiscale, ma ha potuto farlo spendendo il suo grande capitale politico e la percepita autorevolezza che lo hanno trasformato nel vero dominus dell’Europa. “Sovrano è chi decide dello stato d’eccezione”, scriveva Carl Schmitt, e la Bce di Draghi, dal “whatever it takes”  in avanti ha gestito in maniera iperpolitica le fasi più critiche della crisi. Con grandi contraddizioni, molto spesso non col dovuto coraggio e, in generale, con poteri insufficienti, come l’ex ministro italiano Paolo Savona ha più volte fatto notare dichiarando che è necessario per la Bce acquisire poteri di prestatore di ultima istanza e di intervento nell’economia reale.

Ora la musica rischia di cambiare enormemente: Lagarde non dispone del necessario capitale politico e delle stesse, approfondite, doti esecutive di Draghi. I banchieri d’Europa si aspettano da lei una gestione più consensuale che darà inevitabilmente maggior potere di voce ai rigoristi, confidando nelle sue inclinazioni personali certamente ben più inclini ai dogmi austeritari. Senza una guida dotata del polso necessario, la Bce rischia di balcanizzarsi, a scapito di quei Paesi, come l’Italia, che da una situazione maggiormente dirigista hanno tratto indirettamente vantaggi. Una duplice paralisi a livello di rapporto commissione-governi e nel board Bce causerebbe un rallentamento durissimo per l’Europa e la sua capacità, già di per sè limitata, di incidere nell’economia mondiale. Il vuoto lasciato da Draghi sarà difficilmente colmabile con la Lagarde, e non c’è dubbio che il fronte dell’austerità si muoverà per spuntare più concessioni possibili su una politica monetaria più rigida.

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