L’Ufficio Studi della Cgia ad agosto ha rilasciato una propria news sorprendente: l’Italia, nel 2018, ha fatto pagare ai propri cittadini ben 33,4 miliardi di euro di tasse e di imposte in più rispetto a quella che è la media continentale.
La notizia colpisce senza ombra di dubbio per l’entità delle cifre che vengono riportate e messe in risalto, ma non altrettanto per la sostanza che essa riporta. L’Italia, infatti, non è neofita per quel che riguarda l’alta tassazione e la notevole pressione fiscale a carico dei contribuenti. Tuttavia, partendo dai dati dello studio dell’Associazione mestrina, occorre effettuare una disamina che vada al di là dell’immediatezza, e che risalga nel tempo.
I numeri e le cifre dello studio della Cgia
Innanzitutto, è fondamentale leggere con attenzione i numeri che la Cgia ha posto sotto la lente d’ingrandimento dell’opinione pubblica, con il proprio report basato sui dati forniti dell’Eurostat. Nell’anno solare 2018, i contribuenti italiani hanno pagato l’impressionante cifra di 33,4 miliardi di euro di tasse in più rispetto alla media europea. Un differenziale che si sostanzia in ben 2 punti percentuali di PIL, corrispondenti a 552 euro pro capite dovuti al fisco dello Stato italiano.
Nella comparazione con gli altri Paesi membri dell’Unione Europea, la differenza negativa si fa percepire non soltanto con i Paesi dell’Est Europa o con l’Irlanda paradiso fiscale, ma anche con gli Stati del Sud mediterraneo e del Nord. I cittadini spagnoli, rispetto a quelli italiani, pagano ben 1.975 euro di tasse in meno, quelli portoghesi 1.336, quelli britannici (ora maggiormente prossimi alla Brexit, con la vittoria alle elezioni nazionali del conservatore Boris Johnson) 1.888, quelli olandesi 930 e quelli tedeschi 407.
Soltanto sei Paesi in UE si classificano al di sopra dell’Italia. E sono, in ordine: Finlandia ed Austria, con 116 euro pro capite in più del Bel Paese; la Svezia, con +726; la Danimarca, con +1.220; il Belgio, con +1.394; infine, i cugini transalpini della Francia, con +1.830. Al di là di quella che la Cgia medesima definisce la “sorpresa da Parigi“, l’Italia risulta comunque sempre ben al di sopra degli altri Paesi europei: se la sua legislazione fiscale fosse come quella della Germania, risparmierebbe ai suoi cittadini ben 24,6 miliardi di tasse; se fosse come quella dei Paesi Bassi, 56,2 miliardi; se fosse come quella del Regno Unito, 114,2 miliardi; se fosse come quella della Spagna, 119,5 miliardi.
Le preoccupazioni dei membri della Cgia
All’interno della news agostana, lo staff del Centro Studi della Cgia ha espresso preoccupazione nei confronti della suddetta situazione di tale pressione fiscale in Italia. Il coordinatore Paolo Zabeo ha esplicitamente chiesto al mondo politico dello Stivale un salto qualitativo in avanti, che traduca slogan e promesse in realtà. Difatti, egli ha avuto da dichiarare:
“Con la prossima Manovra di Bilancio, è necessario uno scossone che nel giro di qualche anno riduca di 3-4 punti percentuali il peso delle tasse. Considerata la delicata situazione dei nostri conti pubblici, tale intervento sarà praticabile solo ed esclusivamente se si riuscirà ad abbassare, di pari importo, la spesa pubblica improduttiva ed una parte dei bonus fiscali. Operazione, quest’ultima, che appare difficilmente perseguibile”.
Una criticità condivisa, all’interno del team di ricerca, anche dal Segretario Renato Mason, il quale ha espresso sinteticamente inquietudine per il circolo vizioso che l’elevata tassazione origina, in spirale discendente: troppe imposte, infatti, mettono a rischio e repentaglio la tenuta finanziaria del settore privato, ovverosia di famiglie ed imprese. Essendo che lo Stato domanda ai cittadini un’alta imposizione fiscale, questi ultimi di necessità riducono consumi ed investimenti.
Nel frattempo, le banche – non più suddivise fra commerciali e di investimento, ma impostate sul modello universale (da quando, nel 1999, Bill Clinton abolì il Glass-Steagal Act) – prestano prevalentemente a grandi imprese e società finanziare, generando un credit crunch che penalizza i piccoli imprenditori. Ne consegue che fare impresa in Italia diventa sempre più difficoltoso ed arduo: molti hanno chiuso, altri hanno cambiato mestiere. Ed i piccoli artigiani e bottegai, lentamente ed inesorabilmente, spariscono.
I dati della pressione fiscale in Italia
Indi per cui, all’interno del tessuto socio-economico del Paese Italia – nel quale oltre il 90% delle aziende ed attività commerciali sono costituite da micro e piccole imprese -, una pressione fiscale di tal fatta è tremendamente lesiva e dannosa per i cittadini. La stessa Cgia di Mestre, in una sua news risalente al 6 luglio 2019, ha evidenziato come i contribuenti italiani ne subiscano una reale pari al 48%. Cioè, ben sei punti percentuali in più rispetto alla stima ufficiale, che si aggira attorno al 42%: infatti, il PIL senza economia sommersa da relazionare al gettito fiscale è di 1.539 miliardi, invece che di 1.756.
Questa discrasia – alimentata dall’aumento delle tariffe, spesso delegate dalla Pubblica Amministrazione a privati (che agiscono nell’ottica del profitto) – nasce dal fatto che, come anche per gli altri Paesi europei, il PIL italiano conteggi al proprio interno anche l’economia sommersa, ovverosia il cosiddetto “nero“. Una ricchezza nascosta, riconducibile ad attività irregolari od illegali, che non contribuiscono alle entrate fiscali: nel 2016 (ultima annata calcolata in merito), essa ammontava a 209,8 miliardi di euro.
A conferma di questa situazione di fatto, la Cgia di Mestre aveva portato ancora il 9 febbraio 2019 un altro calcolo molto importante: le tempistiche di “liberazione fiscale” dei cittadini italiani. Con “tax freedom day” si intende il giorno dell’anno in cui il contribuente medio si libera della tassazione dello Stato (Irpef, Iva, Tasi, Imu, accise e così via) ed inizia a guadagnare per se stesso e per il proprio nucleo famigliare. Per l’anno 2019 esso è corrisposto al 4 giugno: cinque mesi di lavoro all’anno soddisfare la pressione fiscale.
Una visione globale della pressione fiscale
Sviscerati tutti i dati e le statistiche in merito all’elevata pressione fiscale in Italia, occorre andare alla ricerca delle sue cause, e cercare di capire perché esista, a livello sistemico, una necessità di tal fatta per lo Stato italiano. Una necessità, quella del prelievo fiscale nei confronti dei cittadini, che ha indotto la popolazione ad avere una visione distorta dell’uso e della funzione delle tasse: cioè, a credere che con queste ultime si paghi la spesa pubblica dello Stato.
In tale contesto, è importante invece enuclearne la reale funzione. In un regime di moneta fiat – ovverosia che si genera dal nulla, che è slegata da qualunque materiale di garanzia della medesima (oro, ad esempio, come nell’epoca del “gold standard“) e che è priva di valore intrinseco -, la pressione fiscale rappresenta il rientro nell’erario statale di quanto messo in circolazione con la spesa pubblica. Cioè il deficit annuale, cioè il debito pubblico, che – come ha fatto notare in più occasioni, tra gli altri, il giornalista economico del Sole24Ore Vito Lops – è l’attuale metodo di emissione della moneta.
Ordunque, la moneta nel circuito economico prima viene immessa, e poi ritirata con le tasse, che possono in tal modo calmierare l’economia interna: un loro aumento è teso a raffreddare le spinte inflazionistiche; una loro diminuzione è tesa a contribuire al surriscaldamento del circuito stesso se afflitto da spinte deflattive. Stando quindi al principio cartalista che regola l’immissione di moneta, le tasse imposte dallo Stato ad i propri cittadini servono per realizzare tre obiettivi: stabilire la moneta a corso legale (quella che viene accettata per il pagamento degli oneri fiscali, per l’appunto); controllare l’inflazione (come già detto); ridistribuire la ricchezza (attraverso un sistema progressivo).
I perché dell’alta tassazione in Italia
Dunque, se la tassazione è il metodo attraverso cui imporre la moneta a corso legale, è imprescindibile domandarsi: qual è la valuta dell’Italia? L’euro. Da qui può nascere una risposta sistemica e di più ampio respiro ai motivi dell’alta pressione fiscale in Italia. Infatti, la moneta unica europea viene emessa dalla BCE (a miliardi al mese), che la introietta nel sistema finanziario internazionale all’interno del quale viaggiano i titoli di Stato dei vari Paesi. I quali, privi di sovranità monetaria, si ritrovano a dover dipendere da privati investitori, ai quali tuttavia vanno resi sul lungo periodo i soldi spesi, con interessi: un circolo vizioso nel quale lo Stato, fondamentalmente, è in continua perdita (come un corpo che viene privato del sangue).
Una perdita che esso deve colmare attraverso il recupero di finanze laddove esistono: quelle (già immesse nel circuito) che appartengono ai cittadini, e che vengono richieste in modalità di imposizione fiscale. Le tasse, così, si trasformano da strumento regolatore a strumento di strozzinaggio della popolazione. Verso la quale i servizi pubblici, peraltro, sono sempre più scadenti e costosi perché privatizzati col fine, da parte dello Stato, di trovare quelle risorse finanziare che, se sovrano, potrebbe generare dal nulla.
Uno studio esclusivo di Scenari Economici ha rivelato che l’Italia, dal 1981 (data del divorzio fra Banca d’Italia e Tesoro), ha pagato ben 3.900 miliardi di euro di interessi, a fronte di un debito pubblico di meno di 2.500 miliardi. E dal 1992 (data della firma del Trattato di Maastricht) è in avanzo primario (eccezion fatta che per il 2009): ovverosia, tassa più di quanto spende. Dovendo a privati investitori salati interessi – i cui tassi sono gestiti dai mercati -, lo Stato italiano non ha quasi mai immesso nel suo circuito socio-economico moneta sonante attraverso la spesa pubblica: ne hanno risentito i consumi e gli investimenti dei cittadini, coinvolti in una spirale deflattiva in connubio con una spirale discendente di elevata pressione fiscale.
Il fardello del vincolo esterno
Perciò, l’architettura sovranazionale alla quale l’Italia ha scelto politicamente di aderire contribuisce per le sue stesse peculiarità strutturali all’alta tassazione. Del resto, ciò è possibile leggerlo anche all’interno delle parole del Coordinatore della Cgia mestrina, Paolo Zabeo: invece che creare ex nihilo le risorse finanziarie da sfruttare per il Paese, lo Stato necessita di “trovarle”. O spostandone da un settore all’altro, od usufruendo della pressione fiscale, la quale invero va a soddisfare solo gli oneri di debito contratti, e non gli investimenti.
Il vincolo esterno venuto in essere a partire dal 1992 dà una spinta decisiva all’alta tassazione dello Stato italiano. Come hanno evidenziato Gennaro Zezza e Sergio Cesaratto nel working paper del 2018 “Farsi male da soli. Disciplina esterna, domanda aggregata e il declino economico italiano“, l’Italia ha avviato il proprio declino nel momento in cui non ha più avuto il controllo simultaneo e coordinato delle leve e degli strumenti di politica economica, quali la politica fiscale, quella monetaria e quella valutaria. Cioè, nel momento in cui non ha più perseguito la piena occupazione – con la lira libera di fluttuare, un’alta spesa pubblica (id est risparmio privato) ed una sinergia con la Banca Centrale -, ma la stabilità dei prezzi, corroborata dalle politiche di austerità e dal connesso crollo di consumi, PIL e produttività.
Nonostante l’ottima posizione finanziaria netta dell’Italia, peraltro: infatti, ha una bilancia commerciale in grande attivo, cioè esporta molto e consuma meno di quanto potrebbe. Tuttavia, data la rinuncia alle leve di cui sopra, il Paese è costretto a limitare la propria spesa pubblica, ad assolvere i debiti verso i privati investitori (per lo più grandi banche e fondi speculativi) e, per ciò stesso, a reperire risorse laddove già immesse: presso i cittadini, con le tasse.
Lo studio effettuato dalla Cgia lo dimostra: 33,4 miliardi di pressione fiscale in più rispetto alla media europea sono una cifra notevole. Una cifra la quale si spiega non soltanto con un’azione politica inadeguata in diversi frangenti della storia recente della Repubblica, ma anche e soprattutto con l’impossibilità, per la politica stessa, di agire nella piena libertà delle proprie facoltà. Stante l’adesione ad una sovrastruttura continentale macroeconomica e monetaria (l’Euro-zona e l’Unione Europea) che – nell’opinione di Joseph Stiglitz, Ashoka Mody e di tanti altri illustri studiosi – ha danneggiato l’Italia. (Non è incidentale che Servaas Storm, su INETEconomics, abbia nominato il proprio studio sull’Italia “Come rovinare un Paese in trent’anni“). Ad esempio, spingendola a quasi trent’anni di avanzo primario: che, tradotto, significa ad un’alta pressione fiscale.