“The scramble” è con questa parola che a fine ‘800 il Times indicò la corsa disordinata da parte delle potenze occidentali all’accaparramento dei territori africani. Un neologismo che poi divenne sinonimo di colonialismo e competizione aggressiva e feroce per la conquista di aree di interesse commerciale e strategico del continente africano.
Un’altra epoca, un’altra storia, un altro mondo, un passato archiviato, verrebbe da pensare. In realtà sono cambiati modi, tempi attori e strategie ma tutt’oggi retaggi, non poi così celati, di quella che fu una gara di conquista senza esclusione di colpi per il dominio della terra africana, insistono sotto nuove vesti e nomi.
Un nuovo tipo di “scramble” è infatti in atto. Non si tratta più di tirare delle linee su una mappa geografica per stabilire a quale Stato europeo appartenga una determinata porzione di continente africano, è una guerra diversa, fatta da nuovi protagonisti che cercano di mettere le mani su un aspetto ancora vergine dell’Africa: il mondo della rete. Potremmo parlare di ”cyber scramble” perché oggi l’Africa è divenuta il far west dei grandi colossi del Web che vedono in quella fetta di mondo che va da Tangeri a Città del Capo, scomodando Conrad: “Una macchia bianca che un bambino può riempire di sogni di gloria”.
In Europa, così come negli Usa, governi e fruitori della rete stanno mostrando sempre più scetticismo e diffidenza nei confronti dei Gafam (Google, Apple, Facebook,Amazon e Microsoft). Lo scandalo Cambridge Analytica, il Regolamento generale per la protezione dei dati varato a maggio dal Parlamento europeo, le multe pantagrueliche a Google e Facebook, sono tutti fattori che dimostrano come l’Occidente abbia cessato di essere il Paese di Cuccagna per i colossi del web.
Ma, la parola fine all’epoca in cui Zuckerberg e soci facevano il buono e il cattivo tempo vale, per l’appunto, per l’emisfero occidentale, non per l’Africa. ”Il continente sta sempre più fomentando le speranze delle multinazionali digitali che stanno globalizzando i loro servizi nell’emisfero meridionale. Sarebbe quindi questo il momento opportuno per imporre a queste aziende il rispetto dei dati dell’utente. Invece assistiamo a questo fenomeno: ci sono numerosi testi legali che condannano le frodi attraverso i sistemi informatici, ma solo 23 Stati su 55 hanno adottato misure giuridiche per la protezione dei dati personali e di questi 23, solo 9, si sono dotati di un ‘autorità legale che faccia rispettare le regole”.
È con queste parole che Julie Owono, avvocato e direttore esecutivo dell’Ong Internet Sans Frontieres, ha parlato a Jeune Afrique illustrando la situazione africana in materia di protezione dei dati personali nel web. E, solo una volta che si è preso atto di questo stato delle cose che manifesta come ci sia una situazione ondivaga e nebulosa per quel che riguarda la tutela dei dati personali dei cyberutenti africani, si può iniziare ad analizzare e comprendere la corsa verso la conquista del web in Africa messa in atto dai Ciclpoi della rete.
L’Africa è un vastissimo mercato poco regolato per quel che riguarda il mondo di internet e con una fantastica riserva di fruitori in continua crescita. Oggi 453 milioni di africani su 1,2 miliardi di abitanti sono connessi e considerando che nel 2050, secondo le previsioni, il continente conterà 2,5miliardi di abitanti risulta facile capire l’interesse da parte dei GAFAM verso questa porzione del pianeta. E prendendo in analisi anche il fatto che i 475 milioni di europei connessi rappresentavano nel 2016 un giro d’affari in dati personali pari a 60 miliardi di dollari, ecco che risulta ancora più semplice capire perché il continente africano sta generando appetiti e sogni di gloria nei padroni della Silicon Valley. Ovviamente non ci sono solo i GAFAM ad avere delle mire sull’Africa ma anche i loro rivali dell’Impero Celeste, i BATX (Baidu, Alibaba, Tencent e Xiaomi) e quest’ultimi si stanno espandendo in modo più flessibile e silenzioso rispetto ai primi e anche se sono delle realtà private sono comunque legati a Pechino e la loro diffusione nel continente rientra nei grandi progetti promossi dal presidente Xi Jinping che vede nell’Africa una ”nuova via della sete” e ricerca costantemente di espandersi economicamente e strategicamente nel continente.
”Gli stati africani non si rendono conto che srotolare il tappeto rosso ai GAFAM o ai BATX impedisce alle start up locali di emergere e loro stanno abbandonando una partita che riguarda la loro sovranità nel mondo dell’informatica e dei dati personali. E quando tutte le transazioni si faranno online e si utilizzeranno delle criptomonete: cosa resterà ai governi locali?”. Mondher Kanfir, presidente della think tank For a Shared Prosperity in Africa, ha tirato così le somme in merito alla corsa verso la conquista del web africano. E partendo da questo assunto, è doveroso ora spiegare nel dettaglio quello che sta avvenendo per poter comprendere quindi il perchè di queste parole d’allarme che mettono in guardia da quello che implicitamente il presidente tunisino definisce ”cyber-colonialismo”.
In maggio Facebook ha lanciato nella Yabacon Valley, un hub tecnologico alla periferia di Lagos, NG_Hub From Facebook che ha l’obiettivo di costruire in questo paese una comunità tecnologica preparando cinquantamila tra ingegneri e sviluppatori di software. Google, che nel continente impegna circa centomila sviluppatori e una sessantina di start up, ha annunciato che prima della fine di quest’anno aprirà ad Accra un centro di ricerca specializzato in Intelligenza Artificale, ed è la prima volta che un GAFAM avvia un progetto di questo tipo nel continente. La strategia quindi messa in pista dai giganti della Silycon Valley è evidente: organizzare delle comunità di sviluppatori africani in modo tale che questi dispongano di una conoscenza informatica e di una cultura che permetta di attirare sempre più fruitori africani nelle piattaforme e nella rete dei GAFAM. A conferma di ciò basti pensare che Facebook l’anno scorso ha lanciato un concorso tra Africa e Medio Oriente per selezionare sviluppatori di app e ai sei vincitori del contest è stato permesso di utilizzare determinate tecnologie per finalizzare i propri progetti e inoltre non si può tralasciare Andela. Andela è una società creata nel 2014 a New York e a Lagos da due americani, un canadese, un camerunense e un nigeriano già attiva in Kenya, in Uganda e presto anche in Rwanda e ha tra i suoi principali investitori Chan Zuckerberg Initiative, la fondazione senza scopo di lucro fondata da Zuckerberg e sua moglie, GV (ex Google Venture) e Spark Capital. Lo scopo : selezionare i migliori dei migliori tra i professionisti dell’informatica e poi farli lavorare in Africa per i giganti dell’informatica americani ed europei, e secondo Forbes la società realizza un giro d’affari di oltre 20milioni di dollari.
La domanda spontanea ora è quindi la seguente: ”gli internauti africani saranno quindi condannati a essere i prodotti di un mercato di cui non avranno però le chiavi?”. In molti hanno cercato di rispondere al quesito. Cédric Villain, matematico e parlamentare francese, sulle pagine di Le Monde ha chiosato che questo sistema, che si tratti della raccolta e del controllo dei dati personali, o del finanziamento delle start up e della formazione degli sviluppatori permette ai grandi dell’informatica di appropriarsi e sfruttare le risorse e il valore aggiunto creato localmente a discapito di governi e istituzioni locali e Geroges Danzeis, dell’University College di Londra ha parlato invece di cybercolonialismo così definendolo: ”si tratta di una politica o una pratica che permette di prendere il controllo totale o parziale del cyberspazio di un altro paese con delle tecnologie che servono in primis a fare gli interessi di chi è il proprietario delle tecnologie stesse e che quindi guadagna sfruttando economicamente lo spazio di un altro stato ”. E poi si è espresso anche l’autore di ”Startup Lions au coeur de l’African Tech”, Samir Abdelkrim che ha spiegato: ”Da un lato gli africani hanno bisogno di queste tecnologie, queste connessioni e queste infrastrutture per rattoppare il loro ritardo. Ma, dall’altro lato, non sono loro che producono le tecnologie e gestiscono i dati personali raccolti. C’è certamente una volontà politica di andare verso una maggiore sovranità informatica, di raccogliere fondi e lanciare progetti. Ma per il momento, la volontà politica non è sufficiente perchè questa sovranità informatica africana si concretizzi”.
Poche regolamentazioni, una riserva di fruitori in continuo aumento e fermento, l’utilizzo di smartphone e tecnologie ormai capillare in tutto il continente e la possibilità di impossessarsi di fette dello cyberspazio sono gli ingredienti, per tirare le somme, per cui si sta verificando questa corsa prepotente e frenetica per l’accaparramento di parti dell’ Africa. Una storia che sembra di averla già letto e pure di averne già letto l’epilogo; la cronaca annunciata di un continente in vendita: come in terra, così nel cielo.