Enzo Amendola, ministro dem degli Affari europei del governo giallorosso, ha recentemente lanciato l’allarme: “Rischiamo di finire in una strettoia che allunga i tempi del Recovery”. Così l’esponente del Pd si è espresso parlando a Repubblica del difficile negoziato in corso per portare all’incasso il completamento di Next Generation Eu, il fondo per la ripresa ideato negli accordi di luglio fondati sul patto Merkel-Macron.

Amendola ha ragione ad essere allarmato: il fondo su cui il governo Conte II ha puntato la sua tenuta sul lungo periodo Il Recovery Fund, parafrasando Mao Zedong, non sarà un pranzo di gala. Per un’ampia serie di ragioni. In primo luogo il fatto che il Recovery Fund è stato ideato ma ora va trasposto in programmi concreti, agganciandolo al bilancio europeo pluriennale.

E come Amendola, da conoscitore dei tavoli negoziali dell’Ue, sa bene la logica dei veti incrociati rischia di allungare ulteriormente i tempi. A luglio, per concludere in tempi celeri l’intesa, Bruxelles ha messo sotto il tappeto una serie di nodi che avrebbero messo a rischio l’accordo. Di fatto, a esser stato messo ufficialmente nero su bianco è stato il mantenimento dei rebate, i rimborsi richiesti dai Paesi frugali e originariamente vincolati alla presenza del Regno Unito nell’Ue. Ora a guidare la battaglia diplomatica sono, da un lato, l’Olanda e i suoi alleati (Svezia, Finlandia, Austria, Danimarca) e dall’altro il duo di Visegrad formato da Ungheria e Polonia.

Sette cancellerie su ventisette respingono dunque l’accordo sul bilancio europeo a cui il Recovery Fund sarà necessariamente vincolato. I “frugali” puntano i piedi sull’aumento di risorse proprie destinato a finanziare un fondo da cui avranno ridotti benefici, temendo che possa cancellare i vantaggi miliardari del rebate, mentre Budapest e Varsavia non ci stanno a firmare accordi che espongano il loro fianco alle norme sullo Stato di diritto, ritenute vincolanti per la concessione dei fondi. Come ha ricordato Amendola, poi, i governi stanno rinforzando il veto incrociato dividendosi in una sorta di “gioco delle parti”: i Paesi pro-austerità alimentano il dibattito e “spingono perché lo stato di diritto sia irrinunciabile per accedere ai fondi. L’Italia ha detto la sua: l’articolo 7 e le procedure sullo Stato di diritto sono fondamentali”.

In secondo luogo, bisognerà attendere la fase della ratifica da parte dell’Europarlamento e degli emicicli nazionali. In questo contesto, Strasburgo ha posto dei paletti riguardo alla necessità di aumentare i fondi del bilancio pluriennale, lamentando il taglio di diversi programmi strategici. Il Parlamento europeo chiede di alzare almeno del 10% i fondi in dotazione al bilancio 2021-2027 e di sistemare i tagli imposti a programmi di lungo periodo che si trovano così paralizzati. Ma un tranello in uno qualsiasi dei 27 parlamenti nazionali può sempre essere atteso: in questo contesto, l’indiziata da tenere d’occhio è l’Olanda, Paese in cui Mark Rutte deve giocare la carta del “poliziotto cattivo” per mantenere alti i suoi consensi in vista del voto del prossimo autunno.

Infine, per l’Italia che sarà al nono posto tra i beneficiari netti di NextGen verrà la parte più complessa: decidere come impiegare i fondi. Nella consapevolezza che difficilmente sarà il Recovery Fund sic et simpliciter a cambiare le prospettive della nostra economia, è bene inserire in progetti strategici e coerenti, adeguatamente supportati dal deficit nazionale, i finanziamenti comunitari. Come ci ricorda l’Huffington Post citando dati Bce, il margine che in sette anni Roma avrà dalla differenza tra contributi a fondo perduto e spese extra sarà di una quarantina di miliardi: nonostante “il nostro Paese sia primo per sovvenzioni ricevute in valore assoluto (81 miliardi), il beneficio netto sarà ben inferiore. Nel complesso sarà infatti pari a poco meno del 2% del Pil 2019 secondo i calcoli dei ricercatori” dell’Eurotower.

Ma perchè di tutto ciò si possa parlare è necessario un accordo in tempi brevi sulle spigolature di NextGen. Amendola ha preso per questo la strada di Berlino, conscio che sia Angela Merkel, mai decisiva quanto in questo frangente, il capo di governo capace di sbloccare l’impasse. La Cancelliera ha validi argomenti sia per smussare le pretese dei rigoristi (che in fin dei conti si fidano solo di lei, tra i big europei) e garantire un controllo stringente sui fondi comunitari che per trovare un accordo con i Paesi di Visegrad, base industriale della manifattura tedesca. Roma spera in Berlino, ed è comprensibile: la narrativa costruita dal governo giallorosso dipende dal flusso di finanziamenti europei, che Conte, Roberto Gualtieri e Luigi Di Maio hanno indicato come vera e propria “panacea” dei problemi italiani. Un’esposizione rischiosa che può risultare controproducente se i rubinetti europei non facessero scorrere alcuna goccia prima del 2021 inoltrato: essersi sbilanciati così tanto può portare l’esecutivo di Roma a trovarsi senza strategie alternative in caso di imprevisti.

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