La visita di Mike Pompeo in Italia non è stata una delle più fruttuose per il Segretario di Stato americano: assieme alle difficoltà incontrate in Vaticano, infatti, Pompeo ha dovuto affrontare anche un parziale insuccesso nel contesto dei colloqui avuti con Giuseppe Conte e Luigi Di Maio e che hanno avuto, tra i loro contenuti, anche il futuro della rete 5G del Belpaese.

Certo, Pompeo ha incassato le professioni di rinnovata amicizia e fedeltà ai valori atlantici da parte di Conte e Di Maio, ma al contempo non è riuscito a portare pienamente l’Italia nel campo delle nazioni che si oppongono duramente alla costruzione della rete 5G con prodotti o tecnologie legati a imprese cinesi quali Huawei e Zte.

L’evoluzione dell’applicazione della disciplina del golden power, estesa dal primo atto del nuovo governo giallorosso anche alla rete di ultima generazione, nelle ultime settimane e i conseguenti pareri dell’esecutivo sugli accordi tra imprese operanti in Italia e attori extra-Ue segnalano infatti che, alla prova concreta, le tecnologie cinesi e quelle statunitensi sono vagliate con il medesimo rigore da Palazzo Chigi e dal governo, che grazie ai poteri speciali possono esercitare un forte scrutinio su ogni transazione.

Il 7 agosto, dopo l’esclusione formale “per ragioni industriali” di Huawei dalle prossime gare per il 5G di Tim, Conte con un Dpcm ha però garantito la possibilità a Telecom di operare in futuro con operatori cinesi; il 30 settembre scorso, mentre Pompeo era ancora a Roma, Linkem e Fastweb vedevano due operazioni, la prima condotta in sinergia con Zte e Huawei e la seconda con operatori americani, arrivare sul tavolo del governo. Via libera in entrambi i casi, ma al termine di una procedura di scrutinio simile a quella raccomandata dall’Unione e che parifica operatori cinesi e attori statunitensi.

Analoga situazione il 6 settembre, quando WindTre entra nella lente del governo per i suoi legami con Ericsson, svedese, e la statunitense Ampercom. Il potere di controllo conferito al governo dalla disciplina del golden power è applicato alla lettera, ma i dubbi permangono. Può Roma limitarsi a utilizzare lo scrutinio governativo con atto amministrativo senza, come richiesto dal Copasir e da ministri “atlantisti” come Lorenzo Guerini, che questo passi attraverso un atto collegiale del Consiglio dei ministri? Inoltre, valgono alcuni dubbi posti in essere da Claudio Antonelli su La Verità: “È corretto ribaltare sulle aziende private gran parte della responsabilità che competerebbe alla sicurezza nazionale? Tanto più che le prescrizioni utilizzate a oggi sembrano riportare un baco di fondo. Alcune risposte agli stress test arriverebbero direttamente dal fornitore” che ha fino a 165 giorni per essere interrogato dal governo sulle possibili minacce alla sicurezza nazionale.

Navigare senza rotta nella partita per il 5G e puntare unicamente sul golden power può rivelarsi un’arma a doppio taglio. L’Italia del governo giallorosso ha diverse scelte, assai complesse, cui fare riferimento. Può continuare con lo status quo, barcamenandosi tra lassismo e irrigidimento verso le tecnologie cinesi e un atteggiamento ambiguo verso gli Usa, con il rischio di essere qualificata come inaffidabile da entrambe le superpotenze. Può seguire la strada della “sovranità tecnologica” europea, che sul 5G fondamentalmente non dispiace nemmeno troppo a Washington, disposta a favorire Nokia o Ericsson al pari della Germania, non necessariamente escludendo Huawei ma regolando le sue relazioni col colosso di Shenzen. Oppure può puntare sul costo-opportunità di mera prospettiva finanziaria e cavalcare i legami con Huawei, sapendo cosa ciò può implicare sul profilo geopolitico e di intelligence. Bisognerà scegliere, e la somma di tante deliberazioni formalmente impeccabili ma politicamente ambigue non fa una strategia. Né tanto meno lo farà in futuro.

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