Holi, il festival dei colori che nella religione induista, affonda le radici in antiche mitologie e celebra l’arrivo della primavera, col declino dell’inverno. Il 20 marzo, mentre gli induisti che abitano il distretto di Ghotki – all’interno della provincia di Sindh, in Pakistan – si godevano le festività religiose, due sorelle sarebbero state sottratte con la forza dalla propria casa.
Raveena e Reena Meghwar, rispettivamente di 12 e 15 anni (secondo quanto si dice), provenivano da una famiglia di poveri lavoratori originari di Daharki (una regione tristemente nota per i rapimenti di giovani ragazze indù, poi costrette a convertirsi all’islam e a sposare uomini adulti). Quando il padre ha saputo della scomparsa delle figlie, si è immediatamente precipitato a perlustrare l’intera area, accompagnato dai due figli maschi. In preda alla disperazione, hanno effettuato controlli presso gli ospedali del luogo e la stazione di polizia. Al sorgere del sole, continuava a non esserci traccia delle ragazze.
Il giorno seguente, è spuntato un video delle bambine insieme a un Molvì, una sorta di predicatore islamico, il quale affermava che le sorelle avevano camminato di propria iniziativa fino al quartiere islamico di Dargah Bharchundi Sharif, a Daharki. Il Molvì riferiva che le sorelle avrebbero desiderato convertirsi all’islam ma “non ne era stata loro offerta l’opportunità”. Di conseguenza, sosteneva che le ragazze avessero abbracciato la conversione religiosa, divenendo così una responsabilità collettiva della comunità islamica. A fianco delle due bambine stavano i loro nuovi mariti (entrambi gli uomini, si sarebbe scoperto in seguito, erano già sposati). Il predicatore affermava che le ragazze avevano contratto il matrimonio di loro spontanea volontà.
Dopo poco, è seguito un altro video, divenuto immediatamente virale, che mostrava il padre di Raveena e Reena seduto a terra fuori dalla stazione di polizia, mentre si percuoteva e si umiliava in preda all’angoscia, implorando che gli sparassero.
In relazione alla scomparsa delle ragazze sono state arrestate sette persone, fra cui il predicatore e le famiglie dei mariti, e le indagini sono tuttora in corso.
Le ragazze, tuttavia, hanno presentato un’istanza al tribunale, in cui si afferma che all’epoca avevano più di 18 anni, e che si sono convertite all’islam e si sono sposate seguendo la propria volontà. Hanno inoltre dichiarato di temere la reazione della famiglia che, dicono, le maltrattava, e pertanto hanno chiesto protezione dai propri parenti.
Il caso ha gettato luce su un problema che va avanti da tempo nella comunità indù del Pakistan. Il sequestro di ragazze minorenni è un fenomeno frequente, e così, a seguire, la conversione e il matrimonio forzato con uomini più vecchi. L’unione, a quel punto, viene utilizzata come copertura legale, poiché alle ragazze sono rivolte minacce di violenza, per sé o le loro famiglie, nel caso in cui rifiutino di corroborare dichiarazioni false. Questa dinamica protegge i rapitori e ostacola il salvataggio delle vittime.
Secondo la legge pakistana, il matrimonio contratto con una minorenne non è da considerarsi invalido se la ragazza si dichiara consenziente indipendentemente dall’età. In aggiunta, presso le comunità rurali, spesso mancano le evidenze materiali necessarie a determinare l’età anagrafica delle bambine.
Il Pakistan Hindu Seva Welfare Trust ha rivelato al Times of India che i certificati di nascita delle due ragazze, emessi dall’Autorità nazionale di registrazione (Nadra), erano stati volutamente ignorati. Al contrario, un nuovo certificato medico ospedaliero afferma che Raveena avrebbe 19 anni e Reena 18.
Nel suo rapporto, intitolato Conversioni forzate e matrimoni forzati nella provincia di Sindh, Pakistan, Reuben Ackerman afferma: “Nella maggior parte dei casi, la vittima viene rapita ed è dunque sottoposta a continui abusi emotivi e fisici che spesso comportano minacce di violenza nei confronti dei propri cari…”.
“Le minoranze spesso non ricevono la debita protezione da parte delle istituzioni statali e non hanno adeguato accesso alla giustizia. La Commissione per i Diritti Umani del Pakistan ha riferito che, frequentemente, la polizia chiude un occhio di fronte ai verbali di rapimento e conversione forzata, creando così un clima di impunità per i responsabili. In molti casi, gli agenti si rifiutano di depositare una denuncia ufficiale (First Information Report) o falsificano le informazioni, cosicché alle famiglie viene negata la possibilità di procedere con il proprio caso. I tribunali ordinari e le corti di appello del Pakistan non si sono dimostrate all’altezza nel seguire le dovute procedure nei casi riguardanti le accuse di conversioni e di matrimoni forzati. Di frequente, gli ufficiali giudiziari sono soggetti al timore di rappresaglie da parte di frange estremiste, mentre in altri casi sono le convinzioni personali degli stessi a influenzarli, inducendoli ad accettare le asserzioni secondo le quali la donna/ragazza si sarebbe convertita spontaneamente. Spesso non si indaga sulle circostanze in cui ha avuto luogo la conversione e sovente si ignora l’età della ragazza. La ragazza/donna in questione è perlopiù lasciata in custodia al rapitore, mentre i procedimenti giudiziari sono in corso, ed è così costretta a subire ulteriori minacce di violenza per obbligarla a negare il proprio rapimento e stupro e dichiarare che la conversione sarebbe stata volontaria”.
Il Pakistan ha ratificato sia il Patto internazionale sui diritti civili e politici che la Convenzione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione della donna (Cedaw), nel cui articolo 16 si afferma che le donne hanno il diritto di contrarre matrimonio “soltanto con libero e pieno consenso”. Il Paese ha inoltre ratificato la Convenzione Onu sui Diritti dell’Infanzia (Uncrc), che stabilisce nell’articolo 14 che la libertà di pensiero e religione del bambino, e il suo rifiuto a compiere azioni cui si mostra contrario per ragioni morali, vanno rispettati.
Si calcola che, ogni anno, circa mille donne e ragazze appartenenti a minoranze vengano sequestrate, costrette a convertirsi all’islam e obbligate, a quel punto, a sposare i propri rapitori. Non solo: oltre 20 ragazze indù continuano ad essere rapite ogni mese senza possibilità di fuga, anche nei rari casi in cui si riesca ad andare a processo.