Come tutti i bambini dell’Unione sovietica, anche lei sognava di diventare astronauta. Come pochi altri bambini della sua città (Mosca, dove nacque 39 anni fa da madre siberiana) sognava di diventare un monaco Shaolin. È una delle prime cose che racconta la motociclista Vasilisa Komarova, mostrando i denti perlati di un brillante sorriso che, da lontano, riempie di luce la telecamera, quando risponde alla videochiamata dal suo fuso orario nicaraguense.

Dalla Terra del Fuoco all’Alaska

La vita è breve solo se la strada che scegli di percorrere lo è. Questa donna, con il corpo da guerriera ed il nome da zarina (Vasilisa in greco antico significa “Regina”) di chilometri ne ha percorsi davvero parecchi. Il suo viaggio è iniziato nel 2016 nella Terra del Fuoco, in Patagonia, e finirà solo quando raggiungerà il regno ghiacciato dell’Alaska. “Sono russa, ho un passaporto britannico ed una moto cilena con targa colombiana”, racconta. Lungo la strada qualcuno ha cercato di fermarla con forza brutale, ma lei non ha permesso che il dolore cambiasse il suo percorso.

La prima volta che Vasilisa chiese a sua madre una moto in regalo aveva quattro anni. Al tempo vivevano nell’Unione sovietica, prossima al collasso. A sette anni iniziò a mettere da parte dei soldi per comprarne una. Sua madre le riportava i racconti dei vicini: “Abbiamo visto tua figlia con degli agligoliki (alcolisti). Vendere delle bottiglie vuote non è adatto ad una bambina”. Non lo era, ma con quegli spiccioli Vasilisa si comprò delle ginocchiere per andare in moto. Riuscì a comprarsi la sua prima Yamaha meno di vent’anni dopo, acquistandola con il denaro ricevuto per la vincita di un premio fotografico.

Disastro in Bolivia

L’esistenza ed il viaggio di Vasilisa furono improvvisamente spezzati in terra boliviana in una notte buia del luglio 2016. Alloggiava in un campeggio che le era stato raccomandato poiché sicuro, e dormiva in una tenda da sola. Tre uomini la approcciarono e la stuprarono. Due di questi le ruppero un braccio per tenerla ferma, dopodiché la violentarono lasciandola quasi senza vita accanto alla sua moto, anch’essa distrutta per impedire che se ne andasse dal campeggio e chiedesse aiuto. Infine, prima di andarsene, i tre orinarono sulla sua tenda.

“Vasilisa, tu hai…hai…”. Le parole giuste per concludere la mia frase le trova lei: “Ho sbattuto quei cani in prigione”. Si riferisce a quei tre che la violentarono, in quella notte che fermò il suo viaggio e la sua vita allo stesso tempo. I suoi muscoli sono quelli di una lottatrice, e a guardarla sembra che non abbia mai conosciuto la felicità. Vasilisa non è irrequieta né furiosa, solo di una bellezza disarmante: non lascia trasparire un lamento e non è mossa dalla rabbia che, dopo quello che le è accaduto, sarebbe del tutto comprensibile.

La strada per il recupero

“Non erano uomini, erano animali. Erano ubriachi e sotto effetto di droghe. Quello che hanno fatto a me lo fanno alle loro mogli e alle loro figlie”, commenta. I mesi successivi a quella notte sono stati molto bui. “In testa avevo solo brutti pensieri, continuavo a rivedere quella scena e non riuscivo a smettere di pensarci”. Per un po’ di tempo si isolò da tutti e rimase in quella giungla. La sua vita si era frantumata in migliaia di frammenti, schegge e pensieri negativi da cui doveva cercare di riprendersi per far fronte al dolore.

Tuttavia, Vasilisa non si è lasciata soffocare da una tragedia in grado di paralizzare anche l’individuo più forte. È stata messa al tappeto, ma si è rialzata. Non ha dato corda al senso di sconfitta e alla sofferenza: ha capito che non poteva rimanere in una prigione all’interno della sua stessa testa, doveva lasciarsi alle spalle i suoi tre assalitori. E la via d’uscita non era una fuga, ma la lotta.

Cercare di farsi giustizia

Bottiglie vuote, come quelle che Vasilisa vendeva da bambina nell’Unione Sovietica. Iniziò una terapia a base di pezzi di vetro: una sua amica le insegnò ad usare dei contenitori rotti per creare delle figure animali. “Era un modo per riacquistare il controllo, per uscire dalla mia testa che straripava di pensieri e mi riproponeva sempre la stessa scena”, racconta oggi. Si dedicò anche ad altro, oltre al vetro: ricerche, accuse ed investigazioni contro i tre assalitori, in un paese che vanta uno dei tassi di violenze sessuali più alti in America Latina, un numero pari solo a quello del silenzio delle donne che non denunciano questi abusi.

La strada più lunga da percorrere è stata quella verso la giustizia. “Se sono in grado di andare dalla Patagonia all’Alaska, allora devo anche essere in grado di fermarmi e combattere per me stessa”. Quando decise di rimanere di nuovo sola in un paese straniero finché non avesse ottenuto giustizia, la parola viaggio assunse un nuovo significato. Vasilisa, che aveva studiato giurisprudenza in Russia prima di trasferirsi a Londra all’età di 23 anni, contattò le autorità, e l’ambasciata britannica le rispose. Una rappresentante diplomatica entrò a far parte della sua vita. “Una donna fantastica che è comparsa nella mia vita, come Mary Poppins”, racconta Vasilisa.

Riflettori sulla vicenda

Due anni dopo Vasilisa vince il processo, e i tre stupratori ricevono una sentenza collettiva di 42 anni. Finalmente inizia a parlare ad alta voce di tutto quello che le è successo, e i quotidiani la ascoltano. La stampa boliviana è la prima a scrivere la sua storia, dopodiché quella britannica, poi quella russa, ed infine il New York Times. La storia di Vasilisa è diventata anche un film prodotto da Al Jazeera.

“Prima del film non riuscivo ancora ad andare avanti, ma durante le riprese ci sono riuscita”. Vasilisa ha deciso di rivedere i suoi assalitori davanti alle telecamere. Questa volta erano incarcerati, mentre lei era una donna libera. Se ne stavano rinchiusi in una cella, lei era fuori. Le sbarre che li dividevano non hanno impedito alle sue grida di entrare nelle loro teste. “Avevo qualcosa da dire. Per me è stato un cambiamento colossale: da quel profondo dolore ho assorbito energia. Ho urlato, mi sono svuotata e sono tornata a volare”. Continua ad usare quella parola, a sottolineare quel concetto.

Dobbiamo avere meno paura e più forza

Po menshe baiatsa, po bolshe borotsa. “Dobbiamo avere meno paura e più forza”. Mai indulgente con se stessa e sempre forte, questa bionda ragazza russa è diventata un’icona per le ragazze more della Bolivia. Le ha aiutate a superare una parola che lei stessa ripete spesso con rabbia ed indignazione: vergogna. Ad ogni latitudine “il dogma del maschilismo viene protetto da quelle donne che si sentono in colpa. Sono gli uomini a compiere queste violenze, ma la responsabilità viene sempre attribuita alle donne”, spiega Vasilisa. Il vecchio sotterfugio di dare la colpa alla vittima.

A 35 anni voleva vedere il mondo. A 39, dopo avere finalmente ottenuto giustizia, Vasilisa conferma alla fine del video che quel suo desiderio c’è ancora.

“Ho girato il mondo per anni. Raggiungerò l’Alaska non appena riapriranno i confini chiusi a causa del Covid-19”, racconta Vasilisa. “Non lasciate che niente di ciò che accade vi possa fermare. Anche dopo tutto quello che mi è successo, spesso mi dicono che devo trovare un uomo, che non posso viaggiare da sola. Ma io la sera non devo preparare la cena a nessuno, e la mattina mi alzo ed inizio ad allenarmi; non ho un ragazzo, ho una moto. Mi va bene così. Queste ruote sono le mie ali. E io volo”.

Traduzione a cura di Stefano Carrera

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