La loro storia rappresenta una dicotomia priva di compromessi fra liberazione e repressione. Le immagini dei loro volti sono state distillate – quasi con eccessiva lentezza – per essere trasmesse a un mondo in attesa e una stampa impaziente. Si tratta di 11 attiviste dell’Arabia Saudita che, nel giugno del 2018, hanno avuto un ruolo fondamentale rispetto alla decisione storica, per ilPaese, di permettere alle donne di guidare. Perciò, il 27 marzo, queste donne affronteranno il proprio destino davanti alla corte penale, senza avvocati, né accesso a forme di rappresentanza legale.

Il 14 marzo, Amnesty International ha rilasciato un commento sul processo, affermando: “Le attiviste sotto processo sono tra le donne più coraggiose che difendono i diritti umani in Arabia Saudita. Non solo sono state diffamate dagli organi d’informazione filo-governativi per il loro lavoro pacifico in favore dei diritti umani, ma hanno anche subito orrende violenze fisiche e psicologiche in carcere. Sollecitiamo le autorità saudite ad annullare queste accuse oltraggiose e a rilasciarle immediatamente e senza condizioni”

Per decenni, l’ostinata posizione del paese sulla questione del diritto delle donne alla guida è stata pilotata dalla stretta inflessibile di religione e politica.

Tuttavia, questo conseguimento epocale per i diritti femminili nel dispotico regime saudita si è tinto d’ironia, quando le sue eroine sono state arrestate e incarcerate in circostanze crudeli. A partire dal maggio del 2018, alla diffusione di accuse di tortura e condizioni di vita disumane hanno fatto seguito gli appelli di organizzazioni quali Amnesty e Human Rights Watch, affinché venissero presi provvedimenti.

Poco dopo l’abolizione del divieto, il governo ha sistematicamente dato la caccia agli attivisti più influenti. Loujain al-Hathloul è stata la prima delle sostenitrici della campagna a scomparire, seguita da Eman al-Nafjan e Aziza al-Yousef, insieme ad altri che avevano partecipato alle dimostrazioni pacifiche e non-violente.

 

In quanto figura di spicco dell’attivismo per i diritti femminili, al-Hathloul aveva accumulato un enorme seguito sui social media. Aveva raggiunto la notorietà nel dicembre del 2014, grazie al suo tentativo di viaggiare in automobile dagli Emirati Arabi Uniti all’Arabia Saudita. Con una dose di sprezzo del pericolo e un pizzico di coraggio, aveva registrato un video di sestessa al volante, intenta a percorrere il tragitto. È stata arrestata per aver infranto la legge e la sua incarcerazione è durata 73 giorni, prima del rilascio.

In un articolo pubblicato dal Guardian, il fratello, Walid al-Hathloul, scriveva: “Quest’anno è stato un incubo per la mia famiglia. Il giorno dell’arresto di mia sorella, uomini armati hanno fatto irruzione, senza un mandato, nella casa dei miei genitori. Hanno preso Loujain e per un mese intero non abbiamo avuto idea di dove fosse. Nessuno voleva darci una risposta su dove potesse trovarsi. Da allora, la situazione non ha fatto che peggiorare. Loujain ci ha raccontato di essere stata picchiata, colpita da scariche elettriche e molestata sessualmente. È stata aggredita da interrogatori che hanno cercato di toglierle i vestiti, dandole della sgualdrina. E uno di loro è stato trovato seduto vicino alle sue gambe, mentre lei dormiva. Durante una visita recente, abbiamo appreso da Loujain che i suoi carcerieri l’avevano portata da uno psicologo per aiutarla a riprendersi dalle torture che aveva dovuto subire. Ma il trauma di rivivere quelle esperienze le aveva procurato uno svenimento. Ci ha raccontato che, durante la seconda seduta dallo psicologo, l’hanno bendata e legata col nastro adesivo a una sedia a rotelle”.

Secondo tre diverse testimonianze raccolte da Amnesty, alle attiviste sarebbero state inflitte torture abituali, con scariche elettriche e frustate che hanno causato l’incapacità, per alcune, di camminare o stare in piedi correttamente. In uno degli episodi descritti, una delle attiviste sarebbe stata appesa al soffitto e, secondo un’altra testimonianza, una delle donne in stato di detenzione sarebbe stata oggetto di molestie sessuali da parte di interrogatori che avevano il viso celato da maschere.

Samah Hadid, direttrice delle campagne sul Medio Oriente per Amnesty International, ha dichiarato: “Queste donne sono state prese di mira e imprigionate unicamente per il loro attivismo pacifico, intorno a questioni che hanno compreso il diritto alla guida, la fine del sistema di tutela maschile e il rispetto dei diritti umani nel Paese”.

“La revoca del divieto è la dimostrazione del coraggio e della determinazione delle attiviste per i diritti delle donne, la cui campagna nel merito viene portata avanti sin dagli anni Novanta”.

La protesta guadagnò popolarità per la prima volta nel 1990, quando 47 donne saudite, passate alla storia col soprannome di Drivers, sfilarono in automobile per le strade di Riad. Le partecipanti alla dimostrazione furono castigate severamente e dovettero affrontare un’esistenza di ripercussioni sociali sconvolgenti.

Hadid ha proseguito: “Le attiviste sono state perseguite per reati insensati. Alcune di loro sono state accusate di aver promosso i diritti delle donne e aver chiesto la fine del sistema di tutela maschile. Sono state imputate poi, di aver comunicato con organizzazioni internazionali, media stranieri e altri attivisti, fra cui ogni contatto con Amnesty International.”

“Le autorità saudite sono direttamente responsabili del benessere delle donne e degli uomini in stato di detenzione. Questi, non solo sono stati privati della libertà, ormai da mesi, semplicemente per aver espresso le proprie opinioni in modo pacifico, ma subiscono inoltre spaventose sofferenze fisiche”.

Amnesty ha lanciato una petizione online per chiedere alle autorità il rilascio delle attiviste incarcerate, e una marea di firme si sta riversando da ogni angolo del globo.

L’Arabia Saudita rimane tenacemente una delle ultime monarchie assolute esistenti al mondo. Ciononostante, non è tutto oro quel che luccica, e la facciata è piena zeppa di incrinature, causate dall’impeto di chi esige che il governo risponda del suo operato e che rispetti i diritti civili.

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