“Le donne dovrebbero essere considerate cittadini a pari diritti”, aveva dichiarato l’attivista saudita Aziza Al-Yousef al Guardian, nel 2016. Era stata lei a guidare una campagna in cui a migliaia avevano firmato la petizione per sradicare il sistema dittatoriale di tutela maschile vigente nel paese – una battaglia che Aziza ha combattuto, senza tregua, per oltre dieci anni.

“Tutti hanno affermato che non si tratta di religione, sono solo norme governative, e dovrebbero essere cambiate”, aveva insistito.

Nel 2018, Al Yousef è stata incarcerata, lasciata a languire in una cella e, si sospetta, sottoposta a torture crudeli – a causa del suo impegno in favore dei diritti delle donne. Martedì scorso le è stata garantita la scarcerazione temporanea, dopo aver passato quasi un anno in prigione. Almeno 10 attiviste per i diritti femminili rimangono in stato di detenzione e sono in attesa di conoscere la propria sorte, a seguito delle udienze che dovrebbero tenersi la settimana ventura.

Storie di questo tipo continuano ad emergere, quali amari promemoria della severità delle restrizioni cui sono tuttora soggette le donne nel paese islamico, e da tempo gli oppositori invocano lo smantellamento del “sistema di tutela maschile”.

Sotto la monarchia saudita, ogni donna deve avere un “wali” – un tutore di sesso maschile – che di solito è il padre, un fratello, il marito o uno zio. Alle donne è proibito prendere decisioni quali richiedere un passaporto, viaggiare, firmare contratti, studiare all’estero, avere libero accesso alle cure mediche, o sposarsi senza il permesso del tutore maschile. Quante fuggono da situazioni di violenza domestica o da abusi sessuali devono innanzitutto ottenere l’approvazione del tutore per poter sporgere denuncia alla polizia – il che risulta problematico, nel caso in cui l’autore degli abusi sia il tutore stesso.

La tradizione prende forma da un ambiguo versetto del Corano, che afferma: “Gli uomini sono i protettori e manutentori delle donne, poiché Dio ha concesso di più agli uni [quanto alla forza] rispetto alle altre, e perché spendono per esse i loro beni.”

Lynn Maalouf, direttrice delle ricerche sul Medio Oriente per Amnesty International, ha spiegato che, per questo motivo, in Arabia Saudita le donne e le ragazze devono tuttora fare fronte a una società intrinsecamente discriminatoria e vivere in uno stato di subordinazione legale agli uomini, cosicché è un parente maschio a dover prendere per loro ogni decisione.

“Le attiviste fanno campagna per le fine delle norme tutelari da molti anni. Nel 2016, l’attivista per i diritti delle donne Aziza al-Yousef ha consegnato alla corte reale una petizione corredata da 15,000 firme, che chiedeva la fine del sistema di tutela maschile,” ha detto.

“Nel Maggio dell’anno scorso, un certo numero di attiviste di spicco nell’ambito della difesa dei diritti delle donne sono state arrestate, nel continuo inasprimento dell’azione del governo saudita contro la comunità di difensori dei diritti umani. Loujain al-Hathloul, Iman al-Nafjan e Aziza al-Yousef sono state tutte incarcerate arbitrariamente per le loro attività di militanza pacifica, senza un reale capo d’accusa, e questo va avanti da Maggio.

In seguito al loro arresto, il governo ha dato via a una spaventosa campagna di diffamazione per screditarle in quanto “traditrici”.”

Le donne in questione sono state accusate di aver promosso i diritti delle donne e chiesto la fine del sistema di tutela maschile. Fra le accuse vi è anche quella di aver contattato organizzazioni internazionali, media stranieri e altri attivisti, compresa Amnesty International, che ha lanciato una petizione online per il loro rilascio.

Maalouf ha affermato: “Le attiviste sotto processo sono tra le donne più coraggiose che difendono i diritti umani in Arabia Saudita. Non solo sono state diffamate dagli organi d’informazione filo-governativi per il loro impegno pacifico in favore dei diritti umani, ma hanno anche subito orrende violenze fisiche e psicologiche in carcere. Sollecitiamo le autorità saudite ad annullare queste accuse oltraggiose e a rilasciarle immediatamente e senza condizioni.

“Le autorità devono inoltre garantire indagini indipendenti e imparziali intorno alle accuse di tortura sollevate delle attiviste e sostenere il diritto di queste alle riparazioni per la detenzione arbitraria e altre violazioni dei diritti umani”.

L’Arabia Saudita al momento occupa il 138esimo posto fra i 144 stati annoverati nel rapporto sul Gender Gap globale, e rimane uno dei paesi al mondo con le peggiori condizioni di segregazione sulla base del genere.

Nel 2000, il paese ha ratificato la  Convenzione delle Nazioni Unite sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione della donna (Cedaw), il che implica che l’obbligo legale e morale a porre fine alla discriminazione nei confronti delle donne si estenderebbe a comprendere il sistema di tutela maschile. L’Arabia Saudita ha dichiarato che “la parità di genere è garantita nel territorio del paese secondo le misure della Shari’a islamica, che risultano generalmente allineate con gli standard internazionali per quanto concerne i diritti umani”.

In un’intervista con The Atlantic, il principe ereditario Mohammed bin Salman, responsabile della rimozione del divieto alla guida per le donne, ha riconosciuto che c’è bisogno di continuare a lavorare al miglioramento dei diritti femminili.

“Prima del 1979 esisteva la tutela come tradizione sociale, ma non c’era nessuna legge tutelare in Arabia Saudita”, ha affermato, facendo riferimento alla rivoluzione iraniana e all’occupazione della Grande Moschea alla Mecca da parte della fazione estremista sunnita, che condusse all’inasprimento della legge islamica nel paese.

“La norma non risale all’epoca del Profeta Maometto. Negli anni Sessanta, le donne non viaggiavano accompagnate da un tutore maschio. Ma oggi è così, e vogliamo lavorarci su e trovare una soluzione al problema che non danneggi le famiglie, né la cultura.”

Ha spiegato che esistono aspetti più profondi e complessi, che trovano fondamento nelle differenze sociali e culturali.

“Ad alcune famiglie piace mantenere l’autorità sui propri membri, e alcune donne non vogliono la possibilità di controllare i parenti maschi. Ci sono famiglie a cui il sistema va bene così com’è. Ci sono famiglie più aperte, che concedono alle donne e alle figlie ciò che desiderano. Quindi se acconsento a queste richieste, significa che sto creando problemi per le famiglie che non vogliono dare libertà alle proprie figlie.”

Nel 2016 l’Arabia Saudita ha annunciato il proprio progetto “Vision 2030”, che elenca i dettagli per la proposta strategica di crescita nazionale nel corso dei prossimi 15 anni. Nel progetto si affermava che il paese “continuerà a sviluppare il talento [femminile], investendo nelle capacità produttive delle donne e permettendo loro di rafforzare la propria posizione futura e di contribuire allo sviluppo della nostra società ed economia”.

Considerate le condizioni restrittive del sistema di tutela maschile, sarà il tempo a rivelare quanto possano definirsi plausibili o sostenibili aspirazioni di questo tipo.

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