Recentemente è stato ampiamente documentato l’uso da parte della Federazione Russa di Uav (Unmanned Air Vehicle) di fabbricazione iraniana nel conflitto in Ucraina.
Abbiamo già avuto modo di dimostrare le difficoltà russe incontrate nella produzione di Uav Male (Medium Altitude Long Endurance) e degli Uas in generale: Mosca ha dimostrato capacità relativamente scarse per quanto riguarda i suoi veicoli aerei senza pilota, molto più scarse di quanto ci si sarebbe aspettato date le ampie risorse che Mosca ha dedicato a questo aspetto delle sue Forze Armate.
Oltre ai “droni” iraniani tipo Shahed-131 e 136, ridesignati rispettivamente Geran-1 e 2, ai Mohajer-6 e a quanto sembra anche gli Shahed-129 e 191, i russi hanno acquisito anche un certo quantitativo di droni commerciali di fabbricazione cinese.
Teheran non ha mai ammesso la fornitura di Uav alla Russia, ma “autopsie” effettuate su esemplari recuperati in buone condizioni dagli ucraini hanno permesso di certificarne il coinvolgimento nel conflitto.
A inizio novembre è stata condotta dal Car (Conflict Armament Research) un’analisi dettagliata delle loro caratteristiche di progettazione e dei componenti, confrontandoli con le precedenti documentazioni di sistemi simili utilizzati nei conflitti in Medio Oriente.
Quest’analisi comparativa dimostra che gli Uav rinvenuti in Ucraina, oltre a essere gli Shahed-136, Shahed-131 e Mohajer-6 di fabbricazione iraniana, sono dotati di molte componenti di recente fabbricazione prodotti da società con sede principalmente negli Stati Uniti.
Questo solleva importanti interrogativi relativi all’efficacia dell’embargo a cui è sottoposto attualmente l’Iran, in particolare la risoluzione 2231 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite che vieta il trasferimento di determinati beni e attrezzature da o verso Teheran.
Russia e Iran, quindi, dipendono fortemente da componentistica prodotta in Occidente, e molto probabilmente, allo stesso modo, riescono ad aggirare le sanzioni internazionali appoggiandosi al contrabbando oppure all’acquisto da Paesi terzi non allineati.
L’analisi rivela che ciascuno degli Uav esaminati, così come le munizioni a guida di precisione usate sui cui si è riuscito a mettere le mani (le Qaem-5), è costituito quasi esclusivamente da componenti prodotti da società con sede in Asia, Europa e Stati Uniti, in particolare si tratta di più di 70 produttori che hanno sede in 13 diversi Paesi di cui l’82% negli Stati Uniti. Di alcuni è nota l’identità: sullo Uav Mohajer-6, ad esempio, è stato identificato il propulsore Rotax prodotto in Austria da una sussidiaria della canadese Bombardier Recreational Products (Brp), la stessa che motorizza i droni Mq-1 Predator statunitensi e gli Heron israeliani.
Il Mohajer-6 ha cominciato a essere prodotto in serie nel 2018, ovvero tre anni dopo la risoluzione 2231 che approvava il defunto trattato Jcpoa che aveva tra le sue clausole anche il divieto di trasferimento di tecnologia relativa alla costruzione di sistemi di consegna per armi nucleari. Sebbene lo Uav in questione non risulti in grado di essere un sistema di consegna di armi atomiche, la componentistica utilizzata può comunque essere anche impiegata per quello scopo. Nell’elenco completo degli articoli soggetti a divieto ai sensi della risoluzione 2231 sono compresi anche missili balistici e da crociera, nonché “sistemi di Uav” con una portata pari o superiore a 300 chilometri.
Poiché l’autonomia degli Shahed-131 e 136, come risulta anche dal loro utilizzo in Ucraina, li fa rientrare in questi criteri, questi droni sarebbero quindi soggetti a restrizioni per il loro trasferimento ai sensi della risoluzione del Consiglio di sicurezza dell’Onu. Infatti, proprio in forza del provvedimento, qualsiasi consegna di questi Uav dall’Iran a Paesi terzi effettuata senza l’approvazione del Consiglio di sicurezza, violerebbe i termini della risoluzione.
Il dossier compilato dal Car, come dicevamo, dimostra che molti componenti sono stati fabbricati di recente: la maggior parte di essi nel 2020 (36%) e nel 2021 (20%), fattore che indica che nemmeno il ritorno delle più stringenti sanzioni elevate dagli Stati Uniti dopo la loro uscita unilaterale dal Jcpoa avvenuta sotto l’amministrazione Trump ha bloccato lo sviluppo di armamenti in Iran.
Per quanto riguarda l’attribuzione a Teheran dei degli Uav, in particolare delle loitering munitions Shahed-131 e 136, l’esame “autoptico” condotto mostra inequivocabilmente che si tratti di mezzi iraniani: cablaggi, etichettature, servomotori, struttura delle cellule, giroscopi e anche la numerazione seriale è coerente con gli esemplari rinvenuti in Medio Oriente tra il 2017 e il 2022.
Il ritrovamento di componentistica fabbricata in Occidente su sistemi d’arma utilizzati dalla Russia in Ucraina non è una novità: nei mesi scorsi erano stati individuati microchip statunitensi nei missili da crociera e a balistici corto raggio russi, ma in quel caso c’era un’altra spiegazione. La Russia ha subito un embargo progressivo a partire dal 2014, a seguito degli avvenimenti in Crimea e Donbass, ma prima di allora commerciava regolarmente con Europa e Stati Uniti. Ora, col conflitto in Ucraina, Mosca non ha più accesso direttamente a queste componenti fabbricate in occidente, e non può nemmeno accedere a quanto prodotto a Taiwan o in Corea del Sud (i più avanzati al mondo). Il mercato cinese non offre ancora lo stesso livello tecnologico dei microchip, e l’industria interna russa non è in grado di produrli stante la scarsità degli investimenti – come evidenziato dalla stessa stampa russa – pertanto la Russia può ottenerli solo tramite il mercato nero o tramite il contrabbando che coinvolge Paesi intermediari.
Si può quindi pensare che anche l’Iran, stante questo rapporto, possa essere ricorso alla stessa metodologia e quindi viene da chiedersi quanto davvero le sanzioni internazionali siano efficaci se il loro fine è quello di mettere in ginocchio l’industria bellica di un avversario. Del resto anche la Corea del Nord, che è sotto sanzioni da anni, ha dimostrato un discreto livello tecnologico che l’ha portata a dotarsi di missili balistici intercontinentali e, molto probabilmente, di testate nucleari miniaturizzate in grado di essere trasportate da quasi tutti i vettori balistici. Intendiamoci: le sanzioni sono comunque efficaci per ridimensionare notevolmente il potenziale dell’industria bellica di un Paese che ne è soggetto, ma esistono risorse alternative, come abbiamo detto, che riescono a offrire piccoli canali di approvvigionamento, che, grazie a processi di retroingegneria, nel lungo periodo possono portare alla nascita di produzioni autoctone.
Del resto se è possibile bloccare le merci, non è possibile bloccare gli studenti, che nel corso degli anni sono stati mandati a formarsi nelle più importanti e prestigiose università occidentali. La Cina, da questo punto di vista, ne è la prova lampante.