Il 20 giugno il ministro della Difesa israeliano Benny Gantz ha annunciato l’esistenza di una nuova rete regionale di difesa aerea congiunta, nota come Middle East Air Defense Alliance (Mead). L’idea generale è quella di creare un sistema di comunicazione unificato che colleghi tutti i sensori di allerta precoce schierati dai Paesi partecipanti sotto la supervisione del Centcom (Central Command) statunitense. Questa rete di allerta radar condivisa consentirà di individuare e tracciare in tempo reale le minacce aeree, come Uav (Unmanned Air Vehicle) o missili balistici e da crociera.

Mead sembra sia già operativa e avrebbe consentito di respingere i tentativi iraniani di attaccare Israele e altri Paesi, come ha affermato Gantz. Una fonte della difesa israeliana ha detto a Breaking Defense che la coalizione avrebbe avuto un ruolo nell’abbattimento degli Uav iraniani lo scorso anno da parte di una coppia di F-35I “Adir” israeliani, che secondo fonti della difesa hanno utilizzato intelligence in tempo reale e dati raccolti al di fuori di Israele.

Ora sembra che siano in corso discussioni con un certo numero di Paesi che sono disposti a posizionare sensori di fabbricazione israeliana sul loro territorio per facilitare la lotta contro la minaccia iraniana. Il Centcom Usa ha fatto da catalizzatore per l’accordo, che vedrebbe la partecipazione, oltre a Israele, di Arabia Saudita, Qatar, Egitto, Emirati Arabi Uniti, Bahrein e Giordania.

La nascita di questo sistema di sorveglianza aerea integrato e soprattutto la possibilità che Stati arabi un tempo acerrimi nemici di Israele possano acquistare e ospitare sul proprio territorio sistemi di fabbricazione israeliana (quindi anche relativo personale per l’addestramento) rappresenta una svolta epocale seconda solo agli Accordi di Abramo siglati ad agosto del 2020: forse il più grande risultato di politica estera ascrivibile all’amministrazione Trump.

La normalizzazione dei rapporti tra Israele e gli Emirati Arabi Uniti ha infatti innescato un meccanismo per il quale anche altri Stati arabi e nordafricani hanno seguito la strada segnata da Abu Dhabi: Bahrein, Marocco, Sudan, Egitto, Giordania hanno intessuto relazioni diplomatiche ufficiali con Tel Aviv e aperto a partenariati di vario tipo.

L’obiettivo di questa strategia statunitense è stato chiaro sin da subito: emarginare l’Iran e i suoi alleati. L’unione del fronte anti-iraniano nell’area mediorientale, già in embrione per via delle “intese” tra Arabia Saudita e Israele, ora si configura come una vera e propria alleanza militare di ampio respiro che va anche oltre i firmatari degli Accordi di Abramo, e culla il sogno americano di veder nascere una “Nato” del Medio Oriente.

La crescente percezione dell’aggressione iraniana nella regione, data non solo dall’intervento in Siria ma anche dalle azioni in Iraq attuate tramite i suoi proxy, dal conflitto in Yemen e da quanto gli ruota intorno riguardante la sicurezza dei traffici nel Mar Rosso e nel Golfo Persico, insieme al desiderio di Washington di ridurre l’influenza russa e cinese nelle petromonarchie del Golfo, ha provocato negli ultimi mesi intensi contatti diplomatici che potrebbero portare a grandi cambiamenti a livello politico e militare.

Gli esempi saudita ed emiratino sono emblematici da questo punto di vista: Riad, che ha avuto più di uno screzio con Washington per il nucleare iraniano da quando è stato siglato il Jcpoa (ora defunto), si era avvicinata alla Cina per poter conseguire autonomia nel campo dell’energia atomica, mentre Abu Dhabi ha espresso più di una volta interesse per i cacciabombardieri russi arrivando anche a intavolare colloqui ufficiali per possibili acquisizioni. Va ricordato, dal punto di vista degli armamenti, che Mosca annovera Riad tra i suoi clienti già da tempo, ma Washington non può permettere che anche la Cina penetri ulteriormente nella regione.

L’idea di una “Nato” del Medio Oriente piace alla Giordania, con il sovrano Abdullah II che ha affermato che avrebbe sostenuto la creazione di un’alleanza simile, ma ha espresso anche la necessità di chiarire molto bene gli intenti del patto, sebbene coinvolga nazioni che si trovano ad affrontare la medesima minaccia rappresentata dall’Iran.

Israele è il Paese centrale della Mead, perché dispone di assetti aerei e da difesa aerea moderni: oltre ai già citati F-35, capaci da soli di raccogliere dati attraverso i loro sensori e condividerli in tempo reale, Tel Aviv ha in servizio sistemi missilistici di fabbricazione autoctona (utilizzati dal complesso Iron Dome) che si integrano con i Patriot statunitensi e un radar di lunga portata facente parte del sistema Thaad.

Anche l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti hanno acquistato sistemi di difesa aerea e missilistica americani ma Israele, in questa nuova alleanza, proprio per la tipologia di assetti disponibili, è il Paese che meglio può gestire la rete di difesa aerea mediorientale.

Il sistema integrato utilizzerà quasi sicuramente i dati satellitari americani che passeranno per il Centcom e permetterà quindi anche ai Paesi arabi di entrare nell’ombrello protettivo israelo-statunitense, ma sarà comunque necessario, per gli stessi, dotarsi di ulteriori sistemi missilistici da difesa area con capacità Abm (Anti Ballistic Missile) e di radar da allerta precoce, e non è detto che si affidino al mercato americano: le capacità di intercettazione di Irbm (Intermediate Range Ballistic Missile) del sistema israeliano Arrow 3 sono state già state testate con successo nel 2017 e David’s Sling è stato utilizzato contro i missili in arrivo dalla Siria nel 2018.

L’incognita è rappresentata dall’Arabia Saudita: esistono ancora forti resistenze interne rispetto alla collaborazione con Israele, e Riad ha stabilito legami diplomatici, di intelligence e militari con Tel Aviv sono a livello informale, quindi l’ingresso nel Mead rappresenterebbe un passo rischioso, ma altrettanto rischioso sarebbe restarne fuori. Allo stesso modo la mancanza dell’Arabia Saudita lascerebbe un lungo vuoto nella rete di difesa congiunta che va assolutamente evitato.

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