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Il conflitto in Ucraina, come abbiamo già avuto modo di raccontarvi, è anche una guerra in cui i droni hanno avuto e stanno avendo un ruolo fondamentale.

Che siano droni kamikaze (meglio detti loitering munitions), veicoli senza pilota navali oppure piccoli droni che si possono trovare liberamente in commercio, gli unmanned system sono forse i veri protagonisti di questo conflitto, e come tali il loro impiego in battaglia viene attentamente studiato dai Paesi non belligeranti. Da quanto accade in Ucraina si possono infatti apprendere delle lezioni molto importanti sulle modalità non ortodosse di impiego di Uav (Unmanned Air Vehicle), come ad esempio l’utilizzo di droni commerciali per la ricognizione, l’aggiustamento del tiro di artiglieria, o addirittura il bombardamento di trincee e veicoli avversari dopo che sono stati parzialmente modificati per il trasporto e lo sgancio di proiettili da mortaio o granate.

Conosciamo ormai benissimo le gesta del drone Bayraktar Tb2, che ha avuto una parte importante nei primi mesi del conflitto, e sebbene ora il suo impiego sembra essersi ridimensionato ad azioni in cui non c’è presenza consistente di sistemi da difesa aerea, comunque il velivolo sta riscontrando un grosso successo di vendite proprio per quanto visto in Ucraina.

Anche la Russia sta usando gli Uav. In particolare si sono viste loitering munitions tipo Lancet e Kub oppure i piccoli droni Orlan-10 usati per la ricognizione/Ew (Electronic Warfare). Molto più raramente si è visto, invece, quello che è un drone di classe superiore (ovvero Male – Medium Altitude Long Endurance): stiamo parlando dell’Orion.

L’Orion è un Ucav (Unmanned Combat Air Vehicle), così come lo è il Bayraktar Tb2, che ricorda molto, nel suo aspetto, gli statunitensi Мq-9 Reaper. Il velivolo è uno dei più grandi droni di fabbricazione russa: ha un’apertura alare di 16 metri e una lunghezza di 8. Si stima che la quota di tangenza massima sia di 7500 metri e la durata massima del volo di 24 ore con carico utile standard, con una velocità massima di 200 chilometri orari.

Dall’inizio dell’invasione, la Russia ha dimostrato capacità relativamente scarse per quanto riguarda i suoi veicoli aerei senza pilota, molto più scarse di quanto ci si sarebbe aspettato date le ampie risorse che Mosca ha dedicato a questo aspetto delle sue Forze Armate.

A riprova di quanto affermato, l’esercito russo sta utilizzando, con particolare intensità, Uav di fabbricazione iraniana di diverso tipo: dalle loitering munitions tipo Shahed-136, ridesignate Geran-2 dai russi, sino ai Mohajer-6 passando, a quanto sembra, anche dai Shahed-129 e 191, i quali sono velivoli senza pilota da attacco al suolo. Anche centinaia di droni commerciali di fabbricazione cinese (inclusi diversi modelli del Dji Mavic) sono stati acquistati da volontari di varie regioni russe per essere usati in battaglia, pertanto si evince che la Russia sta affrontando un problema non indifferente riguardante la disponibilità di droni.

Da dove arriva questa carenza? Una delle cause principali è legata alla dipendenza della Russia dalla tecnologia estera. Vi abbiamo già raccontato di come, nel settore dei microchip ad alte prestazioni, la produzione locale non riesca a sopperire allo stop delle importazioni dall’Occidente e da alcuni Paesi produttori orientali (come la Corea del Sud o Taiwan).

La stessa dinamica la si ritrova nel settore dei droni in quanto le aziende russe che fabbricano Uav facevano affidamento su catene di fornitura globali per alcuni componenti elettronici e altra componentistica, come i motori e apparecchiature industriali.

Dopo l’annessione della Crimea e l’inizio della guerra nel Donbass nel 2014, infatti, lo sviluppo degli Uav russi è diventato più lento e afflitto da maggiori problemi di manutenzione, come segnala anche The Jamestown Foundation.

Le società statali del settore degli armamenti (Rostec e Uac), hanno cercato di costruire droni in proprio, per sopperire alle difficoltà incontrate da altre “semi-private” che si occupano di questo settore (Kronstadt, Zala Aero Group e Uzga), ma con scarsi risultati: i velivoli S-70 “Okhotnik” e Korsar vanno a rilento, nonostante si parli di uno sviluppo decennale.

Un altro problema, strettamente correlato al primo, è infatti che la Russia non riesce ad arrivare a una produzione in serie di determinati Uav di grandi dimensioni, e anche per quelli più piccoli, come le loitering munitions, la produzione è di basso rateo con circa 50/60 esemplari l’anno.

Diventa quindi chiaro perché Mosca, per i “droni kamikaze” e per i Male, abbia dovuto affidarsi in gran fretta alle forniture iraniane, che non sono state preordinate da regolare contratto di acquisizione come avviene per qualsiasi sistema d’arma venduto all’estero, ma hanno avuto un “canale preferenziale” di vendita.

Inoltre, lo sviluppo di Uav in Russia è stato particolarmente difficoltoso perché Mosca ha tentato di distribuire risorse limitate tra troppi progetti e ha imposto il controllo statale sulle aziende private, piuttosto che stimolarne l’iniziativa migliorando l’ambiente istituzionale afflitto da corruzione e malagestione.

Non c’è via d’uscita quindi? Si ritiene che la Russia possa cercare (o stia già cercando) di risollevare il settore degli Uav, come altri, attraverso il contrabbando di componenti primari e l’aiuto di Paesi amici, che potrebbero fare da intermediari per le tecnologie occidentali sotto embargo. Non si tratta però di un processo immediato: occorreranno mesi perché si possa dare ossigeno all’industria locale, ed ecco perché, quindi, Mosca si è rivolta a Teheran e alla Cina per colmare questo divario e quindi poter continuare a usare Uav nel conflitto in Ucraina. L’attuale situazione di stallo, dove le forze russe si sono ritirate su linee meglio difendibili a est del fiume Dnepr, servirà quindi anche a guadagnare tempo per l’industria, e non è da escludere che passati i mesi invernali si possa assistere a un utilizzo più intenso di Uav di fabbricazione russa.

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