Al di là del dibattito analitico circa il futuro della politica estera americana (isolazionismo? multilateralismo?) è l’Alleanza atlantica che in queste ore vive una vera crisi di identità, ben altra cosa rispetto alla morte cerebrale annunciata tempo fa. Perché se il buon padre di famiglia di questa invenzione post-bellica smette di essere tale, allora bisogna farsi due domande. Domande diventano sempre più pressanti alla luce dell’attacco avvenuto nel cuore di Kabul. Un affondo violento all’ombra del disimpegno americano che ha spiazzato gli alleati occidentali.
Le ragioni per cui la Nato nacque rispondevano chirurgicamente a esigenze da Guerra Fredda e dietro vi sorgeva un progetto geograficamente ben collocato, nell’est Europa come in altri teatri. Poi, pian piano, con il crollo dell’Urss quel progetto mutò felicemente forma ma iniziò a operare in contesti non sempre condivisi. L’Iraq e l’Afghanistan ne sono due esempi paradigmatici. Ma fintanto che l’idea di arsenale della democrazia, rinfocolata a gran voce dalle macerie del World Trade Center, ha tenuto banco, non v’è stato motivo di allarmarsi.
Nato, G7 e G20
Il primo dilemma si presenta quando al piano della Nato si sovrappone quello di G7 e G20, oltre che quello dei complessi rapporti con l’Unione europea, che si troverà per prima a fronteggiare le conseguenze della programmata fuga dall’Afghanistan.
Joe Biden ha discusso con gli alleati del G7 la scadenza del ritiro: gli Stati Uniti sono in contatto quotidiano con i talebani attraverso canali politici e di sicurezza. Il dipartimento di Stato americano, nel frattempo, è fiducioso di poter far uscire tutti gli americani dall’Afghanistan entro la scadenza del 31 agosto. Londra e Berlino non sono dello stesso avviso: il ministero degli Esteri tedesco, Heiko Maas, specificando che le autorità tedesche ne stanno parlando con “gli Usa, la Turchia e altri partner con l’obiettivo di permettere allo scalo di continuare a operare le operazioni civili per portare le persone fuori” dal Paese. Da Londra, si vocifera che Joe Biden e Boris Johnson abbiano “concordato di garantire che chi ha titolo per partire sia in grado di farlo, anche dopo la fine della fase iniziale dell’evacuazione”. La Francia, che in un primo momento, aveva ritenuto “necessario” un “rinvio supplementare” del ritiro delle forze occidentali dall’Afghanistan oltre il 31 agosto per continuare le evacuazioni, concluderà le operazioni dall’Afghanistan giovedì 26 agosto se gli Stati Uniti confermeranno il ritiro totale entro il 31. È quanto ha dichiarato Nicolas Roche, capo dello staff del ministro degli Esteri Jean-Yves Le Drian.
I leader del G7, durante la riunione straordinaria in video conferenza, hanno fissato una road map su un possibile dialogo con i talebani a condizione che il gruppo «garantisca un corridoio sicuro» a tutti coloro che vogliono lasciare il Paese anche dopo la scadenza del 31 agosto. A chiarire questo punto è stato proprio Boris Johnson che, pur confermando il “no” di Biden a un rinvio, ha dichiarato che occorre essere realisti sui talebani e che il G7 deve provare a usare i suoi strumenti di persuasione per cercare di condizionarli dopo il ritiro. La voce non è più unica e l’ombrello fa fatica a restare aperto.
Si tratta davvero di declino americano?
La ritirata claudicante dal Paese è stata bollata da molti come il ritratto del declino americano, la giusta punizione per l’hybris decennale e per l’ossessione interventista. Eppure, a guardare con occhio chirurgico, al di là della goffaggine di cui sono diretti responsabili sia Trump che Biden, questo è esattamente ciò che Washington vuole. Innumerevoli paragoni con la fuga da Saigon e con il Vietnam si sono sprecati in questi giorni: ma la comparazione regge fino a un certo punto.
In Vietnam gli Stati Uniti scelsero di andar via perché sapevano di non poter vincere, perché non potevano tollerare un solo morto in più. Fu una fuga disonorevole ma salvifica. In Afghanistan gli Stati Uniti hanno deciso, deliberatamente, di ridisegnare il cortile di casa. Semplicemente, quell’angolo di mondo ha smesso di essere nelle priorità della Casa Bianca, così come l’Africa o il Medio Oriente, come testimonia il parziale abbandono dell’area e il cerchiobottismo con Israele e Arabia Saudita.
L’ossessione di Pechino
C’è una parte del pianeta che è fatta di stretti, di porti, di dazi, di mari che preoccupano più dei talebani o di Gerusalemme. Perfino Mosca sembra essere un pensiero meno ossessivo, al di là della teatralità con cui Putin e Biden se le mandano a dire. Pechino è un Leviatano di prim’ordine e l’Indopacifico il nuovo teatro in cui ricollocare le brame. Finché questi cambi di rotta, aggravati dalla pandemia e dalle guerre commerciali, sono nel dipartimento di Stato, tutto bene. Decisioni autonome di stati sovrani.
Ma quando tutto questo si trascina dietro la Nato, le cose cambiano. Perché, ad esempio, per l’Unione europea Pechino non è il pubblico nemico numero uno, e in Europa nessuno ha voglia e intenzione di inimicarsi il Dragone, al di là delle prese di posizione sui diritti umani. Figurarsi, poi, quanto l’Indopacifico possa essere un’urgenza per il resto dei membri Nato.
La fine della Pax americana?
Forse è una questione di nodi che vengono al pettine, di Fine della storia che si presenta davvero solo adesso. Perché fino a 20 anni fa, a Guerra Fredda conclusa da un decennio, il terrorismo islamista aveva offerto una rivisitazione del concetto di “noi” e “loro”, sostituendo l’Unione Sovietica con i terroristi. E al resto del club atlantico era bastato, nel momento in cui la furia attentatrice si era replicata ovunque nel mondo. Ora, per la prima volta dalla Seconda guerra mondiale, gli Stati Uniti si dirigono verso una “guerra” che è quasi esclusivamente propria, abbandonando partite che erano anche “nostre”, e che lo sono ancora.
Biden è stato chiarissimo in questo intento e nella sua declinazione dell’America first, al netto di una comunicazione disastrosa. In questo non differisce dal suo predecessore. L’ovvia lezione per i leader europei, Johnson compreso, è che non si può fare più affidamento (solo) su Washington. L’Afghanistan è l’ultima prova che gli Stati Uniti, come ogni altro stato sovrano, perseguono l’interesse nazionale all’insegna del realismo puro: né lupi, né agnelli. Gli stati dell’Ue, con o senza il Regno Unito, devono finalmente fare i conti con anni di discorsi sulla costruzione di capacità di difesa e sicurezza europee credibili e indipendenti nel momento in cui la guerra con la Cina “a noi” non interessa e non conviene. Fine della Pax Americana, è ora di diventare “grandi”.