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Nella giornata di lunedì 4 ottobre il Carrier Strike Group (Csg) misto della portaerei britannica Hms Queen Elizabeth è entrato per la seconda volta nelle acque del Mar Cinese Meridionale nonostante le minacce della Cina nel corso dello svolgimento della sua prima crociera operativa che l’ha portato in Estremo Oriente.

La Cina aveva precedentemente avvertito il Regno Unito di non compiere “atti impropri” in occasione del primo passaggio del Csg in quelle acque contese, avvenuto all’inizio di quest’anno. Il media filo-governativo Global Times, che è visto come un portavoce del Partito Comunista Cinese al potere, aveva dichiarato che “la Marina dell’Esercito di Liberazione Popolare (Pla Navy n.d.r.) è in un elevato stato di prontezza al combattimento La Cina ha monitorato da vicino i progressi del Carrier Strike Group, che attualmente sta navigando attraverso il Mar Cinese Meridionale in rotta verso il Giappone” accusando anche Londra di “vivere ancora ai tempi del colonialismo”.

Come sappiamo la Cina rivendica il possesso sull’intera superficie di quel mare che si trova per la maggior parte compreso tra Vietnam, Filippine, Malesia e Indonesia in forza di una vecchia e arbitraria linea di demarcazione nota come “Linea dei Nove Tratti” (Nine Dash Lines).

Pechino sta anche costantemente e lentamente militarizzando le isole (alcune delle quali artificiali) degli arcipelaghi presenti in quelle acque e parallelamente sta avviando quello che è un vero e proprio processo di nazionalizzazione: all’inizio di settembre ha stabilito unilateralmente che diverse categorie di navi dovranno comunicare i propri dati alla Guardia Costiera cinese (Msa – Maritime Safety Administration) prima di entrare nel Mar Cinese Meridionale. La nuova disposizione prevede che tutti gli operatori, commerciali o militari, di alcune tipologie di navi come sottomarini, navi a propulsione nucleare, navi trasportanti materiale radioattivo, petrolio, prodotti chimici, gas liquefatto (Gnl), o materiali pericolosi, prima di entrare in quel tratto marittimo debbano preventivamente informare la Msa in merito a posizione, destinazione (anche se non dirette vero un porto cinese, ma solo in transito), natura del carico, e soprattutto debbano comunicare, almeno ogni 2 ore, aggiornamenti sulla propria posizione o mantenendo attivo l’Ais, il “transponder” navale, oppure con comunicazioni atte allo scopo.

Gli Stati Uniti e loro alleati – nella fattispecie Australia, Giappone e Regno Unito – conducono pertanto delle operazioni navali di libertà di navigazione (dette Fonops) per ristabilire il diritto internazionale garantito dalla Convenzione sul Diritto del Mare (Unclos). Già l’8 settembre il Csg della portaerei Usa Uss Carl Vinson (Cvn-70) aveva fatto il suo ingresso, per la prima volta quest’anno, in quel mare, mentre il 25 è toccato a quello della Uss Ronald Reagan (Cvn-76) a fare altrettanto.

Entrambi i gruppi navali si sono uniti a quello britannico, formato anche da unità olandesi e statunitensi, a formare una task force navale imponente: ne facevano parte 17 navi da guerra di sei Paesi che hanno effettuato manovre durante lo scorso fine settimana nel Mar delle Filippine. Le tre portaerei erano accompagnate da un’unità portaelicotteri della Japan Maritime Self-Defense Force (la Ddh-182 “Ise” della classe Hyuga) insieme ad altre navi da guerra di Nuova Zelanda, Paesi Bassi e Canada.

L’addestramento, che includeva difesa aerea, guerra antisommergibile, manovre tattiche ed esercitazioni di comunicazione, è proseguito fino a domenica quando i tre Csg si sono separati e quello inglese ha ripreso la rotta sud verso il Mar Cinese Meridionale, dopo aver terminato il ciclo di visite (ed esercitazioni congiunte) in Giappone.

Le navi della Marina degli Stati Uniti coinvolte nell’esercitazione del fine settimana hanno incluso i cacciatorpediniere Uss Shiloh, Uss Chafee, Uss The Sullivans (quest’ultimo andrà a far parte del neonato Task Group Greyhound in Atlantico) e l’incrociatore Uss Lake Champlain.

L’esercitazione si è conclusa nel momento in cui, in un altro settore del Pacifico Occidentale, l’esercito cinese ha inviato 16 aerei da guerra sulle acque a sud di Taiwan, a meno di 400 miglia nautiche da Okinawa. Quella è stata solo l’ultima provocazione da parte di Pechino: la Cina ha inviato 38 aerei nella stessa area venerdì e 39 sabato, facendo segnare il massimo in un solo giorno da quando Taiwan ha iniziato a rilasciare rapporti sui voli nel settembre 2020.

La nuova strategia di Londra

Lo “spostamento” britannico verso l’Indo-Pacifico si fonda su diversi temi che preoccupano per Londra, come l’economia (le economie della regione stanno crescendo a un ritmo notevole) e la sicurezza (per preservare la libertà di navigazione in contrasti all’assertività della Cina). In poche parole, il Regno Unito ritiene che il crescente potere e l’assertività internazionale della Cina siano probabilmente i fattori geopolitici più significativi nel mondo di oggi e pertanto ritiene di dover tornare tra gli attori protagonisti del consesso mondiale.

Nel documento di 100 pagine intitolato “Global Britain in a competitive age – The Integrated Review of Security, Defense, Development and Foreign Policy” edito da Londra, si afferma che la regione indo-pacifica è fondamentale per l’economia, la sicurezza e l’ambizione globale del Regno Unito e parallelamente si dice esplicitamente che la politica di Pechino, oggi, ha “un crescente impatto su molti aspetti della nostra vita man mano che diventa più potente nel mondo” pertanto, per Londra, occorre migliorare “la nostra capacità di rispondere alla sfida sistemica che la Cina pone alla nostra sicurezza, prosperità e valori”.

Gli Stati Uniti quindi hanno (ri)trovato il loro fido scudiero nella battaglia che stanno ingaggiando per contenere le velleità espansionistiche del gigante cinese – attualmente alle prese con una crisi energetica senza precedenti – anche se la postura britannica, intesa come Global Britain in senso generale, siamo sicuri che non sia stata del tutto digerita a Washington che teme di potersi trovare con un alleato-concorrente per i suoi interessi nel Pacifico Occidentale in grado di catalizzare l’attenzione delle nazioni della regione, ed è anche per questo che si è giunti alla recente firma dell’accordo trinazionale Aukus: la Casa Bianca ha così imbrigliato i suoi alleati in un accordo formalmente trilaterale ma che è sbilanciato notevolmente dalla parte statunitense.

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